È Gesù che passa


 «    La vocazione cristiana    » 

Omelia pronunciata il 2 dicembre 1951, prima domenica di Avvento

1 Comincia l'anno liturgico e l'introito della Messa ci propone una riflessione intimamente connessa con l'inizio della nostra vita cristiana, una riflessione sulla vocazione che abbiamo ricevuto. Vias tuas, Domine, demonstra mihi, et semitas tuas edoce me 1: Signore, fammi conoscere le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Chiediamo al Signore di guidarci, di mostrarci le sue vie, affinché possiamo raggiungere la carità, pienezza dei suoi comandamenti 2.
Immagino che anche voi, come me, nel ripensare alle circostanze che hanno accompagnato la vostra decisione di impegnarvi a vivere pienamente la fede, sentiate profonda riconoscenza verso il Signore e siate sinceramente convinti – senza falsa umiltà – che non vi è stato alcun merito da parte vostra. Di solito impariamo a invocare Dio nell'infanzia, dalle labbra dei genitori cristiani; successivamente, insegnanti, amici, conoscenti, ci hanno aiutato in mille modi a non perdere di vista Gesù.
Forse un giorno – non voglio generalizzare, apri il tuo cuore al Signore e raccontagli la tua storia – un amico, un comune cristiano come te, ti svelò un panorama profondo e nuovo, eppure vecchio come il Vangelo. Ti suggerì la possibilità di impegnarti seriamente a seguire Cristo, a essere apostolo di apostoli. Forse in quel momento hai perduto la tranquillità, per ritrovarla trasformata in pace, quando liberamente, perché ti andava di farlo – è questo il motivo più soprannaturale – rispondesti di sì a Dio. Sopraggiunse allora una gioia forte, incessante, che può scomparire soltanto se ti allontani da Lui.
Non mi piace parlare di eletti o di privilegiati. Eppure il Signore chiama e sceglie. Sono parole della Scrittura: Elegit nos in ipso ante mundi constitutionem – dice san Paolo – ut essemus sancii 3. Ci ha scelti prima della creazione del mondo perché fossimo santi. So che questo non ti riempie di orgoglio né ti fa considerare superiore agli altri.
Questa scelta, radice della tua chiamata, deve essere la base della tua umiltà. Si innalza forse un monumento ai pennelli di un grande pittore? Sono serviti per dipingere dei capolavori, ma il merito è dell'artista. Noi cristiani siamo soltanto strumenti del Creatore del mondo, del Redentore di tutti gli uomini.

Gli apostoli, uomini comuni

2 Mi incoraggia tanto riconsiderare un fatto narrato punto per punto nelle pagine del Vangelo: la vocazione dei primi dodici. Meditiamolo con calma, chiedendo ai santi testimoni del Signore di aiutarci a seguire Cristo come loro hanno fatto.
Quei primi apostoli, per i quali ho grande devozione e affetto, se li giudichiamo secondo i criteri umani erano ben poca cosa. Per quanto riguarda la posizione sociale – fatta eccezione di Matteo, che certamente se la cavava bene, ma lasciò tutto quando Gesù glielo chiese – erano pescatori: vivevano alla giornata, faticando di notte per provvedere al loro sostentamento.
Ma la posizione sociale è un dato secondario. Non erano colti, e neppure molto intelligenti, almeno per ciò che si riferisce alla comprensione delle realtà soprannaturali. Perfino gli esempi e i paragoni più semplici risultavano loro incomprensibili e dovevano ricorrere al Maestro: Domine, edissere nobis parabolam 4, Signore, spiegaci la parabola. Quando Gesù con una metafora allude al lievito dei farisei, credono che li stia rimproverando per non aver comprato del pane 5.
Sono poveri e ignoranti. Tuttavia non sono né semplici né schietti. Pur nella loro ristrettezza di vedute, sono ambiziosi. Li troviamo più volte a discutere su chi sarà il maggiore quando Gesù – secondo la loro mentalità – avrà instaurato sulla terra il regno definitivo di Israele. Discutono e si accalorano nel momento sublime in cui Gesù sta per immolarsi per l'umanità: nel raccoglimento del cenacolo 6.
Di fede ne hanno poca. Gesù stesso lo afferma 7. Lo hanno visto risuscitare i morti, guarire ogni genere di malattia, moltiplicare il pane e i pesci, placare le tempeste, scacciare i demoni. Solo Pietro, scelto come capo, sa rispondere con prontezza: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente 8. Tuttavia è una fede che egli interpreta a suo modo, e pertanto si permette di tener testa a Gesù perché non si dia in redenzione per gli uomini.
Gesù deve rispondergli: Lungi da me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini! 9. Pietro – commenta san Giovanni Crisostomo – ragionava umanamente, fino a concludere che tutto ciò – la Passione e la Morte –era indegno di Cristo e riprovevole. Per questo Gesù lo riprende e gli dice: « No, soffrire non e cosa indegna di me; tu giudichi così perché ragioni secondo la carne, in modo umano 10 ».
Questi uomini di poca fede eccellevano forse nell'amare Gesù? Lo amavano, senza dubbio, almeno a parole. A volte si lasciavano trascinare dall'entusiasmo: Andiamo anche noi a morire con Lui 11. Però nel momento della prova fuggono tutti, tranne Giovanni che amava veramente, con le opere. Solo questo adolescente, il più giovane degli Apostoli, rimane accanto alla Croce. Gli altri non nutrivano un amore forte come la morte 12.
Erano questi i discepoli scelti dal Signore; tali apparivano prima che, ripieni di Spirito Santo, diventassero colonne della Chiesa 13. Sono uomini comuni, con i loro difetti, le loro debolezze, la loro parola più lunga delle opere. E tuttavia Gesù li chiama per farne dei pescatori di uomini 14, i corredentori e amministratori della grazia di Dio.

3 Qualcosa di simile è accaduto anche a noi. Senza troppa fatica potremmo trovare nella nostra famiglia, tra i nostri amici e i nostri colleghi, per non parlare dell'immenso panorama del mondo, tante persone più degne di ricevere la chiamata di Cristo. Persone più semplici, più sagge, più influenti, più importanti, più riconoscenti, più generose.
Quando ci penso, ne sento vergogna. Però mi rendo anche conto che la nostra logica umana non serve per spiegare le realtà della grazia. Dio ama scegliere strumenti deboli perché appaia con maggiore evidenza che l'opera è sua. San Paolo ricorda con trepidazione la sua vocazione: Ultimo fra tutti apparve anche a me, come a un aborto. Io infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio 15. Così scrive Saulo di Tarso, uomo di una personalità e di un vigore tali da avere lungo i secoli una risonanza crescente.
Vi dicevo che tutto è avvenuto senza alcun merito da parte nostra, perché alla base della vocazione c'è la consapevolezza della nostra miseria, la certezza che la luce che illumina l'anima – la fede –, l'amore con cui amiamo – la carità –, e lo slancio che ci sostiene – la speranza – sono doni gratuiti di Dio. Pertanto, se non cresciamo in umiltà, perdiamo di vista lo scopo della scelta divina: ut essemus sancti, la santità personale.
È con questa umiltà che possiamo comprendere le meraviglie della chiamata divina. La mano di Cristo ci raccoglie dal granaio: il Seminatore stringe nella sua mano piagata il pugno di frumento; il sangue di Cristo imbeve il seme, lo impregna. Poi il Signore lo getta nel solco, perché morendo sia vita e, affondando nella terra, sia capace di moltiplicarsi in spighe dorate.

È ora di svegliarsi

4 L'epistola della Messa ci ricorda che dobbiamo assumerci la responsabilità di apostoli con uno spirito nuovo, con fortezza, con sollecitudine. È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce 16.
Mi direte che non è facile, e non vi mancheranno le ragioni. I nemici dell'uomo, che sono i nemici della sua santità, cercano di impedire questa vita nuova, questo rivestirci dello Spirito di Cristo. La migliore enumerazione degli ostacoli alla fedeltà cristiana è pur sempre quella di san Giovanni: Concupiscentia carnis, concupiscentia oculorum et superbia vitae 17; tutto ciò che c'è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita.

5 La concupiscenza della carne non è soltanto la tendenza disordinata dei sensi, né l'istinto sessuale che, quando è ordinato, in sé non è un male, ma una nobile realtà umana da santificare. Per questo io non parlo mai di impurità, ma di purezza, perché a tutti sono rivolte le parole del Signore: Beati i pari di cuore, perché vedranno Dio 18. A seconda della loro vocazione divina, alcuni dovranno vivere la purezza nel matrimonio; altri, rinunciando all'amore umano, la vivranno corrispondendo unicamente e appassionatamente all'amore di Dio. Né gli uni né gli altri saranno schiavi della sensualità, ma padroni del proprio corpo e del proprio cuore, per offrirli agli altri in spirito di sacrificio.
Quando parlo della virtù della purezza, aggiungo solitamente l'aggettivo santa. La purezza cristiana, la santa purezza, non consiste nel vanto di sentirsi "puri" non contaminati. È anzitutto coscienza di avere i piedi di argilla 19, benché la grazia di Dio ci liberi giorno per giorno dalle insidie del nemico. Considero una deformazione l'insistenza di alcuni nello scrivere o predicare quasi esclusivamente su questo argomento, dimenticando altre virtù di capitale importanza per la vita del cristiano e, più in generale, per la convivenza fra gli uomini.
La santa purezza non è l'unica né la principale virtù cristiana: è tuttavia indispensabile per perseverare nello sforzo quotidiano di santificazione, al punto che senza di essa è impossibile dedicarsi all'apostolato. La purezza è conseguenza dell'amore con il quale abbiamo offerto al Signore l'anima e il corpo, le facoltà e i sensi. Non è negazione, ma lieta affermazione.
Dicevo che la concupiscenza della carne non si limita soltanto al disordine della sensualità, ma anche a quello della comodità, della mancanza di vibrazione, che inducono a cercare ciò che è più facile e più piacevole, a percorrere il cammino in apparenza più breve, anche a costo di venir meno alla fedeltà a Dio.
Un simile comportamento significa abbandonarsi incondizionatamente al potere di quella legge contro cui ci previene san Paolo, la legge del peccato: Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato... Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? 20. Ed ecco la risposta dell'apostolo: La grazia di Dio, per mezzo di Gesù Cristo, nostro signore 21. Possiamo e dobbiamo lottare contro la concupiscenza della carne, perché, se siamo umili, la grazia del Signore ci verrà sempre concessa.

6 L'altro nemico – scrive Giovanni – è la concupiscenza degli occhi, un'avarizia di fondo che porta a dar importanza solo a ciò che si può toccare: occhi che restano attaccati alle cose terrene, ma anche occhi che, proprio per questo, non sanno scoprire le realtà soprannaturali.
Possiamo dunque utilizzare l'espressione della Sacra Scrittura nel senso di avarizia dei beni materiali e inoltre nel senso di deformazione che porta a guardare unicamente con visione umana ciò che ci circonda: gli altri, le circostanze della nostra vita e quelle del nostro tempo.
Gli occhi dell'anima si annebbiano; la ragione si crede autosufficiente per comprendere tutto prescindendo da Dio. E una tentazione sottile, che si nasconde dietro la dignità dell'intelligenza che Dio nostro Padre ha dato all'uomo perché lo conosca e lo ami liberamente. Trascinata da questa tentazione, l'intelligenza umana si considera il centro dell'universo, si esalta ancora una volta al diventerete come Di 22 e, tutta piena d'amore per se stessa, volge le spalle all'amore di Dio.
A questo punto, la nostra vita può capitolare senza condizioni nelle mani del terzo nemico, la superbia vitae. Non si tratta solamente di effimeri pensieri di vanità o di amor proprio: è uno stato di totale presunzione. Non inganniamoci: questo è il peggiore dei mali, la radice di tutti i traviamenti. La lotta contro la superbia deve essere costante; non a caso è stato detto, in modo espressivo, che l'orgoglio muore il giorno dopo la morte dell'individuo. È l'alterigia del fariseo che Dio non può giustificare, perché trova in lui la barriera dell'autosufficienza. È l'arroganza che porta a disprezzare gli altri, a dominarli, a maltrattarli: perché dove c'è superbia c'è offesa e umiliazione 23.

La misericordia di Dio

7 Oggi, inizio del tempo di Avvento, è cosa buona considerare le insidie di questi nemici dell'anima: il disordine della sensualità e della leggerezza superficiale; l'insipienza della ragione che si oppone al Signore; la presunzione altèra che rende sterile l'amore a Dio e alle creature. Tali situazioni dello spirito sono ostacoli evidenti, e il loro potere perturbatore è grande. Per questo la liturgia ci porta nell'introito ad implorare la misericordia divina: A te, Signore. elevo l'anima mia. Dio mio, in te, confido: non sia confuso! Non trionfino su di me i miei nemici 24. Nell'antifona dell'offertorio ripeteremo: Confido in te, che io non sia confuso!
Ora che il tempo della salvezza è vicino, è consolante ascoltare dalle parole di san Paolo che quando si manifestarono la bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini, Egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia 25.
Scorrendo la Sacra Scrittura scoprirete costantemente la presenza della misericordia di Dio: essa riempie la terra 26 e si estende a tutti i suoi figli, super omnem carne 27: ci circonda 28, ci previene 29, si moltiplica, per venirci in aiuto 30, e costantemente viene riconfermata 31. Dio, venendoci incontro come Padre amoroso, ci accoglie nella sua misericordia 32: una misericordia soave 33, buona come le nuvole apportatrici di pioggia 34.
Gesù completa e ricapitola tutta la storia della misericordia divina: Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia 35; e Ancora: Siate misericordiosi, come e misericordioso il vostro Padre Celeste 36. D'altronde, sono rimaste bene impresse nella nostra mente, tra molte altre scene del Vangelo, la clemenza verso la donna adultera, la parabola del figliol prodigo, quella della pecora smarrita, quella del debitore perdonato, e la risurrezione del figlio della vedova di Nain 37. Quanti motivi di giustizia, per spiegare questo grande prodigio! È morto l'unico figlio di una povera vedova, colui che dava senso alla sua vita e poteva aiutarla nella sua vecchiaia. Ma Gesù non opera il miracolo per dovere di giustizia; lo fa per compassione, perché si commuove interiormente davanti al dolore umano.
Quanta sicurezza ci deve ispirare la misericordia del Signore! Invocherà da me aiuto e io ascolterò il suo grido, perché sono misericordioso 38. È un invito, una promessa che non mancherà di compiere. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno 39. Nulla potranno i nemici della nostra santificazione, perché la misericordia di Dio ci precede: e se – per nostra colpa e per nostra debolezza – cadiamo, il Signore ci soccorre e ci risolleva. Avevi imparato a evitare la negligenza, ad allontanare da te l'arroganza, ad acquistare la pietà, a non essere prigioniero delle cose mondane, a non preferire ciò che è caduco all'eterno. Dato però che la debolezza umana non può procedere con passo sicuro in un mondo sdrucciolevole, il buon medico ti ha indicato anche dei rimedi contro il disorientamento, e il giudice misericordioso non ti ha negato la speranza del perdono 40.

Corrispondenza umana

8 L'esistenza cristiana si svolge in questo clima di misericordia divina. È questo l'àmbito dello sforzo di chi vuole comportarsi come figlio del Padre. Quali sono i mezzi principali per irrobustire la vocazione? Oggi te ne indicherò due, che sono come i cardini vitali della condotta cristiana: la vita interiore e la formazione dottrinale, cioè la conoscenza profonda della nostra fede.
Vita interiore, in primo luogo. Quanti ancora non lo capiscono! Quando sentono parlare di vita interiore pensano alle navate buie o all'aria viziata di alcune sacrestie. Da più di un quarto di secolo cerco di insegnare che non è nulla di tutto ciò. Io mi riferisco alla vita interiore dei comuni cristiani, quelli che abitualmente si incontrano in piena strada, all'aria aperta: quelli che per la strada, nel lavoro, in famiglia e nei momenti di svago non perdono di vista Gesù per tutta la giornata. Non è forse questa una vita di continua orazione? E non hai forse compreso anche tu la necessità di essere anima di orazione, di avere con Dio un rapporto che ti deifichi? Questa è la fede cristiana, e così l'hanno sempre intesa le anime d'orazione: Diventa Dio – scrive Clemente Alessandrino –l'uomo che vuole tutto ciò che Dio vuole 41.
L'inizio non è facile; costa sforzo rivolgersi al Signore e ringraziarlo della sua pietà paterna e concreta verso di noi. Poi, a poco a poco – benché non sia cosa del sentimento – l'amore di Dio si fa tangibile come una traccia profonda nell'anima. È Cristo che ci segue amorosamente: Ecco, sto alla porta e busso 42. Come va la tua vita di orazione? Non senti a volte, durante il giorno, il desiderio di conversare con Lui, senza fretta? Ti càpita di dirgli ogni tanto: poi ti racconterò tutto, ne parleremo insieme?
Nei momenti espressamente dedicati a tale colloquio col Signore, il cuore si apre, la volontà si irrobustisce, l'intelligenza – aiutata dalla grazia – imbeve di realtà soprannaturali le vicende umane. Come frutto, matureranno sempre propositi chiari e concreti di migliorare la tua condotta, di affinare la carità nel rapporto con tutti, di impegnarti a fondo – con lo zelo di un vero sportivo – nella lotta cristiana di amore e di pace.
L'orazione diventa allora incessante, come il battito del cuore e il pulsare delle arterie. Senza questa presenza di Dio non c'è vita contemplativa; e senza vita contemplativa a ben poco serve lavorare per Cristo, perché se Dio non edifica la casa, invano si affaticano i suoi costruttori 43.

Il sale della mortificazione

9 Il cristiano comune – che non è un religioso, né si allontana dal mondo, perché il mondo è il luogo del suo incontro con Cristo – non ha bisogno, per la sua santificazione, di alcun abito esteriore, né di alcun segno distintivo. Le sue caratteristiche sono interiori: la costante presenza di Dio e lo spirito di mortificazione. In realtà, si tratta di una cosa sola, perché la mortificazione non è altro che l'orazione dei sensi.
La vocazione cristiana è vocazione di sacrificio, di penitenza, di espiazione. Dobbiamo riparare per i nostri peccati – Dio sa quante volte abbiamo distolto lo sguardo da Lui per non vederlo! – e per tutti i peccati degli uomini. Dobbiamo ricalcare da presso le orme di Cristo: Portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, l'abnegazione di Cristo, il suo annientamento sulla Croce, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo 44. Il nostro è un cammino di immolazione che conduce a trovare, nella rinuncia, il gaudium cum pace, la gioia e la pace.
Non dobbiamo guardare il mondo con aria delusa. Hanno reso un cattivo servizio alla catechesi, forse involontariamente, quei biografi di santi che hanno voluto trovare ad ogni costo cose straordinarie nella vita dei servi di Dio fin dai loro primi vagiti. Raccontano di taluni che da piccoli non piangevano, che per mortificarsi non poppavano di venerdì... Tu e io siamo nati piangendo, come Dio vuole; e ci siamo afferrati al petto delle nostre madri senza preoccuparci di quaresime e di tempora...
Ora, con l'aiuto di Dio, abbiamo imparato a scoprire lo spatium verae poenitentiae, il tempo di una vera penitenza; in quei momenti facciamo propositi di emendatio vitae, di migliorare la nostra vita. È questa la via per preparare l'anima alla grazia e alle ispirazioni dello Spirito Santo. E con la grazia – ve lo ripeto – viene il gaudium cum pace, la gioia, la pace e la perseveranza nel cammino 45
La mortificazione è il sale della nostra vita. E la migliore mortificazione è quella che – in piccole cose, lungo tutta la giornata – combatte contro la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita. Si tratta di mortificazioni che non mortificano gli altri, che ci rendono più garbati, più comprensivi, più aperti con tutti. È evidente che non puoi considerarti mortificato se sei suscettibile, se soddisfi solo il tuo egoismo, se sopraffai gli altri, se non sai privarti del superfluo e, a volte, del necessario; se ti rattristi quando le cose non si realizzano secondo le tue previsioni. Sei invece mortificato se sai farti tutto a tutti, per guadagnare tutti 46.

La fede e l'intelligenza.

10 La vita d'orazione e di penitenza e la consapevolezza della nostra filiazione divina, ci trasformano in cristiani di profonda pietà, simili a bambini davanti a Dio. La pietà è la virtù dei figli, e perché il figlio possa abbandonarsi nelle braccia di suo padre, deve essere e sentirsi piccolo, bisognoso di tutto. Ho meditato frequentemente sulla vita di infanzia spirituale: essa non è in contrasto con la fortezza; anzi, richiede una volontà forte, una maturità ben temprata, un carattere fermo e aperto.
Pietà di bambini, dunque; ma non ignoranti, perché ognuno deve impegnarsi, nella misura delle sue possibilità, nello studio serio e scientifico della fede: la teologia non è altro che questo. Pietà di bambini – ripeto – e dottrina sicura di teologi.
Il desiderio di acquistare la scienza teologica – la buona e sicura dottrina cristiana – è mosso, in primo luogo, dal bisogno di conoscere e amare Dio. Nello stesso tempo, è anche conseguenza della preoccupazione di un'anima fedele di scoprire il significato profondo di questo mondo, opera del Creatore. Con ricorrente monotonia, alcuni cercano di far rivivere una presunta incompatibilità tra fede e scienza, tra intelligenza umana e Rivelazione divina. Questa incompatibilità si manifesta, ma soltanto apparentemente, quando non si comprendono i termini reali del problema.
Dato che il mondo è uscito dalle mani di Dio, ed Egli ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza 47 e gli ha dato una scintilla della sua luce, il lavoro dell'intelligenza – ancorché richieda un duro sforzo – deve sviscerare il senso divino già insito naturalmente in tutte le cose; e con la luce della fede ne percepiamo anche il valore soprannaturale, reso comprensibile dalla nostra elevazione all'ordine della grazia. Non possiamo aver paura della scienza, perché qualsiasi ricerca, se è veramente scientifica, tende alla verità. E Cristo ha detto: Ego sum veritas 48, io sono la verità.
Il cristiano deve avere sete di sapere. Dall'approfondimento della scienza più astratta, all'abilità manuale degli artigiani, tutto può e deve condurre a Dio. Non c'è lavoro umano che non sia santificabile, che non sia occasione di santificazione personale e mezzo per collaborare con Dio alla santificazione di coloro che ci circondano. La luce di coloro che seguono Gesù Cristo non deve essere collocata nel fondo della valle, ma in vetta alla montagna, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli 49.
Il lavoro così fatto è orazione. Lo studio così fatto è orazione. La ricerca scientifica così fatta è orazione. Tutto converge verso una sola realtà: tutto è orazione, tutto può e deve portarci a Dio, alimentando un rapporto continuo con Lui, dalla mattina alla sera. Ogni onesto lavoro può essere orazione; e ogni lavoro che è orazione, è apostolato. In tal modo l'anima si irrobustisce in un'unita di vita semplice e forte.

La speranza dell'Avvento

11 Non voglio dire di più in questa prima domenica di Avvento in cui cominciamo a contare i giorni che ci avvicinano alla nascita del Salvatore. Abbiamo visto che cos'è la vocazione cristiana; abbiamo visto che il Signore ha fatto affidamento su di noi per portare anime alla santità, per avvicinarle a Sé, unirle alla Chiesa ed estendere il regno di Dio in tutti i cuori. Il Signore ci vuole disposti a donarci, fedeli, sensibili, innamorati. Ci vuole santi, totalmente suoi.
Da una parte ci sono la superbia, la sensualità, il tedio, l'egoismo; dall'altra, l'amore, la dedizione, la misericordia, l'umiltà, il sacrificio, la gioia. Devi scegliere. Sei stato chiamato a una vita di fede, di speranza, di carità. Non puoi restringere i tuoi orizzonti e restare in un mediocre isolamento.
Una volta vidi un'aquila chiusa in una gabbia di ferro. Era sudicia e spennacchiata; aveva tra gli artigli un pezzo di carne putrida. Pensai allora che cosa sarebbe di me se abbandonassi la vocazione ricevuta da Dio. Sentii pena per quell'animale solitario e prigioniero che pure era nato per volare in alto e guardare faccia a faccia il sole. A noi è dato di sollevarci fino alle umili altezze dell'amore di Dio, del servizio a tutti gli uomini. Ma allora è necessario che nell'anima non ci siano nascondigli dove il sole di Cristo non possa entrare. Devi gettare lontano tutte le preoccupazioni che ti separano da Lui, perché Cristo resti nella tua intelligenza, Cristo sulle tue labbra, Cristo nel tuo cuore, Cristo nelle tue opere: tutta la tua vita – il cuore e le opere, l'intelligenza e le parole – piena di Dio.
Aprite gli occhi – abbiamo letto nel Vangelo – e levate il capo, perché la vostra redenzione e vicina 50. Il tempo di Avvento è tempo di speranza. Tutto il panorama della vocazione cristiana, quell'unità di vita che ha come nerbo la presenza di Dio, nostro padre, può e deve divenire una realtà quotidiana.
Chiedilo con me alla Madonna, immaginandoti quei mesi della sua vita in attesa del Figlio che doveva nascere. E la Madonna, Maria Santissima, farà di te alter Christus, ipse Christus: un altro Cristo, lo stesso Cristo.

 «    Il trionfo di Cristo nell'umiltà    » 

Omelia pronunciata il 24 dicembre 1963

12 Lux fulgebit hodie super nos, quia natus est nobis Dominus 51: oggi splenderà la luce su di noi, perché ci è nato il Signore.
Ecco il grande annuncio che commuove in questo giorno i cristiani e che, per loro mezzo, viene rivolto a tutta l'umanità. Dio è in mezzo a noi. È questa la verità che appaga la nostra vita. Ogni Natale deve essere per noi un nuovo e peculiare incontro con Dio, in modo tale che la sua luce e la sua grazia entrino fino in fondo nella nostra anima.
Mentre ci soffermiamo davanti a Gesù Bambino, a Maria e a Giuseppe, e contempliamo il Figlio di Dio rivestito della nostra carne, mi torna alla memoria il viaggio che feci a Loreto, il 15 agosto 1951, per visitare la Santa Casa e pregare per un'intenzione che mi stava molto a cuore. Vi celebrai la Messa. Volevo dirla con raccoglimento, ma non avevo fatto i conti con il fervore della folla. Non avevo pensato che un giorno di festa così solenne avrebbe richiamato dai dintorni un gran numero di persone che portavano con sé la fede benedetta di quella terra e tanto amore alla Madonna. La loro pietà li spingeva a manifestazioni non del tutto appropriate, se si considerano le cose – come dire? – soltanto dal punto di vista delle leggi rituali della Chiesa.
Infatti, quando baciavo l'altare secondo le prescrizioni del messale, tre o quattro donne lo baciavano con me. Ero distratto, ma commosso. La mia attenzione era scossa anche dal pensiero che nella Santa Casa – che la tradizione vuole sia il luogo ove vissero Gesù, Maria e Giuseppe – fossero scritte in alto, sopra l'altare, queste parole: Hic Verbum caro factum est. Qui, in una casa costruita da mano d'uomini, in un lembo della terra su cui viviamo, Dio ebbe la sua dimora.

Gesù Cristo, perfetto Dio e perfetto uomo

13 Il Figlio di Dio si è fatto carne ed è perfectus Deus, perfectus homo 52. In questo mistero c'è qualcosa che dovrebbe emozionare profondamente i cristiani. Ero commosso allora e lo sono ora. Vorrei ritornare a Loreto: mi porto là con il desiderio, per rivivere gli anni dell'infanzia di Gesù ripetendo e meditando quelle parole: Hic Verbum caro factum est.
Iesus Christus, Deus homo: ecco i magnalia Dei 53, le opere meravigliose di Dio, dinanzi alle quali dobbiamo meditare e di cui dobbiamo rendere grazie al Signore, a colui che è venuto a portare la pace in terra agli uomini di buona volontà 54, a tutti coloro che vogliono unire la loro volontà alla Volontà santa di Dio: non soltanto ai ricchi, né soltanto ai poveri, ma a tutti gli uomini, a tutti i fratelli. Perché tutti siamo fratelli in Gesù, tutti figli di Dio e fratelli di Cristo; e sua Madre è nostra Madre.
Sulla terra non c'è che una razza: quella dei figli di Dio. Tutti dobbiamo parlare la stessa lingua, quella che ci insegna il Padre nostro che è nei cieli, la lingua del dialogo di Gesù col Padre, la lingua che si parla col cuore e con la mente, quella stessa che usate ora nella vostra orazione. È la lingua delle anime contemplative, di coloro che sanno essere spirituali perché consapevoli della loro filiazione divina; una lingua che si esprime in mille mozioni della volontà, in tante illuminazioni radiose dell'intelligenza, negli affetti del cuore, nelle decisioni di condurre una vita retta, santa, lieta e pervasa di pace.
Dobbiamo contemplare Gesù Bambino, nostro Amore, nella culla. Dobbiamo contemplarlo consapevoli di essere di fronte a un mistero. È necessario accettare il mistero con un atto di fede; solo allora sarà possibile approfondirne il contenuto, guidati sempre dalla fede. Abbiamo bisogno, pertanto, delle disposizioni di umiltà proprie dell'anima cristiana. Non vogliate ridurre la grandezza di Dio ai nostri poveri concetti, alle nostre umane spiegazioni; cercate piuttosto di capire che, nella sua oscurità, questo mistero è luce che guida la vita degli uomini.
Noi osserviamo – scrive san Giovanni Crisostomo – che Gesù proviene da noi, dalla nostra natura umana ed è nato da una Vergine Madre; non comprendiamo, però, come un tale prodigio possa essersi compiuto. È inutile affannarci a tentare di scoprirlo; accettiamo piuttosto umilmente quello che Dio ci ha rivelato, ed evitiamo di curiosare su ciò che Dio ci ha nascosto 55. Tale accettazione ci porterà a comprendere e ad amare; il mistero sarà allora un insegnamento incomparabile, più convincente di qualsiasi ragionamento umano.

Il senso divino dell'esistenza terrena di Gesù

14 Quando parlo davanti al presepio, cerco sempre di immaginarmi Gesù nostro Signore proprio così, avvolto in fasce e adagiato sulla paglia di una mangiatoia; ma al tempo stesso cerco di vederlo, mentre è ancora bambino e non parla, come Dottore e Maestro. Ho bisogno di considerarlo in questo modo, perché devo imparare da Lui. Per imparare da Lui è necessario conoscere la sua vita; è necessario leggere il santo Vangelo e meditare le scene del Nuovo Testamento per addentrarci nel senso divino dell'esistenza terrena di Gesù.
Dobbiamo infatti riprodurre la vita di Cristo nella nostra vita. Ma ciò non è possibile se non attraverso la conoscenza di Cristo che si acquista leggendo e rileggendo la Sacra Scrittura e meditandola assiduamente nell'orazione, così come facciamo ora, davanti al presepio. Bisogna capire gli insegnamenti che Gesù ci dà fin dall'infanzia, fin da neonato, fin dal momento in cui i suoi occhi si sono aperti su questa benedetta terra degli uomini.
Gesù, che cresce e vive come uno di noi, ci rivela che l'esistenza umana, con le sue situazioni più semplici e più comuni, ha un senso divino. Benché abbiamo considerato tante volte questa verità, ci deve pur sempre riempire di ammirazione la considerazione di quei trent'anni di oscurità che costituiscono la maggior parte del tempo che Gesù ha trascorso tra gli uomini suoi fratelli. Anni oscuri, ma per noi luminosi come la luce del sole. Sono, anzi, lo splendore che illumina i nostri giorni, che dà ad essi il loro autentico significato: perché altro non siamo che comuni fedeli che conducono una vita in tutto uguale a quella di tanti milioni di persone dei più diversi luoghi della terra.
Per sei lustri Gesù non fu che questo: fabri filius 56, il figlio dell'artigiano. Quando poi vengono i tre anni di vita pubblica e l'osanna delle folle, la gente si stupisce: chi è costui e dove ha appreso tante cose? Perché la sua vita era stata la vita comune della gente della sua terra. Egli stesso era noto come faber, filius Mariae 57, l'artigiano, figlio di Maria. Ed era Dio, e veniva a compiere la Redenzione del genere umano, ad attirare a sé tutte le cose 58.

15 Come per ogni altro avvenimento della sua vita, mai dovremmo contemplare quegli anni nascosti di Gesù senza sentirci coinvolti, senza coglierne il significato che più da vicino ci riguarda: sono appelli che il Signore ci rivolge per farci uscire dal nostro egoismo, dalla nostra comodità. Il Signore conosce bene i nostri limiti, l'attaccamento alla nostra personalità, le nostre ambizioni; conosce quanto ci sia difficile dimenticare noi stessi e darci agli altri. Sa che cosa sia non trovare amore e costatare che anche quelli che dicono di seguirlo lo fanno solo a metà. Ricorderete le scene drammatiche, narrate dagli Evangelisti, nelle quali vediamo gli Apostoli pieni ancora di aspirazioni temporali e di progetti soltanto umani. Ma Gesù li ha scelti, li tiene con sé, e affida loro la missione che Egli aveva ricevuto dal Padre.
Anche noi siamo chiamati da Gesù che ci domanda, come a Giacomo e a Giovanni: Potestis bibere calicem, quem ego bibiturus sum? 59, siete disposti a bere il calice che io sto per bere, il calice dell'abbandono completo alla volontà del Padre? Possumus! 60, sì, siamo disposti, rispondono Giacomo e Giovanni. Io e voi, siamo veramente disposti a compiere in tutto la volontà di Dio nostro Padre? Abbiamo dato tutto intero il nostro cuore al Signore, o ci manteniamo attaccati a noi stessi, ai nostri interessi, ai nostri comodi, al nostro amor proprio? C'è qualcosa che non si addice alla nostra condizione di cristiani e che ci impedisce di purificarci? Ecco oggi l'occasione di rettificare.
Come prima cosa, è necessario convincerci che è Gesù a rivolgere a ciascuno di noi queste domande. È Lui a farle e non io. Io non oserei porle nemmeno a me stesso. Sto continuando la mia orazione ad alta voce, ma è dal suo intimo che ognuno di noi confessa al Signore: Gesù, che poca cosa sono, quanta viltà in tante occasioni, quanti errori in questa o in quella circostanza, in quel luogo e in quell'altro...! Ma possiamo anche aggiungere: meno male, Signore, che mi hai sorretto con la tua mano, perché mi riconosco capace di ogni infamia; tienimi stretto, non mi lasciare, trattami sempre come un bambino. Vorrei essere forte, coraggioso, coerente; ma tu aiutami come si aiuta una creatura inesperta. Conducimi per mano, Signore, e fa, che anche tua Madre sia accanto a me e mi protegga. E allora, possumus!, lo potremo, ci sentiremo capaci di prendere Te come modello.
Non è presunzione affermare: possumus! Gesù stesso ci insegna questo cammino divino e ci chiede di intraprenderlo, dal momento che Egli lo ha reso umano e accessibile alla nostra debolezza. Ecco perché si è abbassato tanto. Questo e il motivo per cui quel Signore, che in quanto Dio era uguale al Padre, si e umiliato prendendo la forma di servo; ma si e abbassato per quanto riguarda la maestà e la potenza, non per quanto riguarda la bontà e la misericordia 61.
La bontà di Dio ci rende agevole il cammino. Non possiamo respingere l'invito di Gesù, non possiamo dirgli di no, non possiamo renderci sordi al suo appello: non avremmo scuse, non avremmo argomenti per continuare a credere che non possiamo. Egli ci ha istruiti con il suo esempio. Pertanto, vi supplico, fratelli miei: non permettete che vi sia stato mostrato invano un modello così prezioso, ma configuratevi a Lui e rinnovatevi nell'intimo della vostra anima 62.

Passò sulla terra facendo il bene

16 Vedete quant'è necessario conoscere Gesù e studiare con amore la sua vita? Molte volte ho cercato nella Scrittura una sintesi biografica di Gesù, una definizione della sua attività terrena. L'ho trovata, coniata dallo Spirito Santo, in due parole: Pertransiit benefaciendo 63. Giorno per giorno, tutta la vita di Gesù sulla terra, dalla nascita alla morte, non è che questo: Pertransiit benefaciendo, riempì tutto di bene. In un altro punto la Scrittura dice ancora di Lui: Bene omnia fecit 64, fece bene ogni cosa, portò tutto a termine e non operò altro che il bene.
Tu e io, che cosa ne deduciamo? Esaminiamoci per vedere che cosa abbiamo da correggere. Io trovo in me tanto da rifare! Ma poiché da solo mi riconosco incapace di operare il bene, e Gesù stesso ci ha detto che senza di Lui non possiamo nulla 65, decidiamoci, tu e io, a implorare il suo aiuto, con la mediazione di sua Madre. Ci rivolgiamo a Lui in questi colloqui intimi, propri delle anime che amano Dio. Non aggiungo altro, perché ognuno deve parlare a tu per tu, secondo i suoi bisogni. Mentre vi do questi consigli, dentro di me e senza suono di parole applico questo criterio alla mia personale miseria.

17 Pertransiit benefaciendo. Che cosa fece Gesù per prodigare tanto bene e nient'altro che bene lungo il suo passaggio? I santi Vangeli ci dànno la risposta facendoci conoscere, in tre parole, un'altra biografia di Gesù: Erat subditus illis 66. Egli obbediva. Oggi che il mondo è così pieno di disobbedienza, di mormorazioni, di disunione, tanto di più dobbiamo apprezzare l'obbedienza.
Sono un grande amico della libertà, e proprio per questo amo tanto la virtù cristiana dell'obbedienza. Dobbiamo sentirci figli di Dio e vivere il desiderio appassionato di compiere la volontà del Padre. Fare le cose secondo il volere di Dio perché ci va di farle: ecco il motivo più soprannaturale della nostra condotta.
Lo spirito dell'Opus Dei, che da più di trentacinque anni cerco di vivere e di insegnare, mi ha fatto comprendere e amare la libertà personale. Quando Dio nostro Signore concede agli uomini la sua grazia, quando li chiama con una vocazione specifica, è come se tendesse loro la mano; mano paterna, piena di fortezza, ma soprattutto di amore, perché Egli ci cerca a uno a uno, come figli e figlie, e conosce la nostra fragilità. Il Signore attende da noi lo sforzo di prendere la mano che ci porge: ci chiede questo sforzo come riconoscimento della nostra libertà. Per riuscire a compierlo è necessario essere umili, sentirci figli bambini e amare la benedetta obbedienza dovuta alla sua paternità benedetta.
Al Signore dobbiamo permettere di entrare nella nostra vita e di entrarvi agevolmente, e lo faremo sgombrando ostacoli e illuminando i nascondigli interiori. Noi uomini abbiamo la tendenza a difenderci, ad aggrapparci al nostro egoismo. Cerchiamo sempre di essere dei re, sia pure del regno della nostra miseria. Capite bene, allora, quanto grande è il bisogno di ricorrere a Gesù: Egli solo può farci veramente liberi per poter servire Dio e tutti gli uomini. Comprenderemo allora tutta la verità di queste parole di san Paolo: Ora, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. Perché il salario del peccato e la morte; ma il dono di Dio e la vita eterna in Cristo nostro Signore 67.
Procediamo tuttavia guardinghi, perché la nostra tendenza all'egoismo non muore e la tentazione può infiltrarsi in mille modi. Dio esige che nell'obbedienza venga esercitata la fede, perché la sua volontà non si manifesta con strepito. Sovente il Signore suggerisce la sua volontà sottovoce, nell'intimo della coscienza: per riconoscere tale voce e seguirla fedelmente, è necessario ascoltare con attenzione.
In molte altre occasioni il Signore ci parla per mezzo di altri uomini, e può capitare che la vista dei loro difetti o il dubbio sulla loro idoneità a comprendere tutti i dati di una situazione concreta siano come un invito a non obbedire. Tutto ciò può avere un senso divino, perché Dio non impone un'obbedienza cieca, ma un'obbedienza intelligente, che ci faccia sentire la responsabilità personale di aiutare gli altri con i lumi del nostro intelletto. Cerchiamo però di essere sinceri con noi stessi: esaminiamo, caso per caso, se a muoverci è l'amore alla verità, o non piuttosto l'egoismo e l'attaccamento al nostro criterio. Quando le nostre idee personali ci dividono dagli altri, quando ci portano a rompere la comunione con i nostri fratelli, a rompere l'unità, è evidente allora che non operiamo secondo lo spirito di Dio.
Non dimentichiamocelo: per obbedire – ripeto – ci vuole umiltà. Consideriamo ancora l'esempio del Signore. Gesù obbedisce, e obbedisce a Giuseppe e a Maria. Dio è venuto sulla terra per obbedire, e obbedire a delle creature. Sono, è vero, due creature di grande perfezione: Maria Santissima, Madre nostra, più di Lei solo Dio; e san Giuseppe, uomo castissimo. Ma sono pur sempre creature. E Gesù, che è Dio, era loro sottomesso. Dobbiamo amare Dio, e così ameremo la sua volontà e avremo il desiderio di rispondere agli appelli che ci rivolge attraverso gli impegni abituali della nostra vita quotidiana: attraverso i doveri del nostro stato, l'attività professionale, il lavoro, la famiglia, i rapporti sociali, le sofferenze proprie e altrui, l'amicizia, lo zelo per compiere ciò che è buono e giusto.

18 Quando giunge il tempo natalizio mi piace contemplare le immagini di Gesù Bambino. Quelle figure che rappresentano il Signore nel suo annientamento mi ricordano che Dio ci chiama, che l'Onnipotente ha voluto presentarsi a noi indifeso e come bisognoso degli uomini. Dalla culla di Betlemme Gesù dice a me e a te che ha bisogno di noi; ci sollecita a una vita cristiana senza compromessi, a una vita di donazione, di lavoro, di gioia.
Non raggiungeremo mai la vera serenità se non imitiamo davvero Gesù Cristo, se non lo seguiamo nell'umiltà. Lasciatemelo dire di nuovo: avete visto dove si nasconde la grandezza di Dio? In una mangiatoia, con le fasce di un neonato, dentro una grotta. La forza redentrice della nostra vita sarà efficace pertanto solo se c'è umiltà, solo quando smetteremo di pensare a noi stessi e sentiremo la responsabilità di aiutare gli altri.
Non è infrequente che anche anime buone si provochino conflitti personali tali da suscitare serie preoccupazioni ma che in realtà sono privi di ogni base oggettiva. Nascono da una conoscenza di se stessi tanto inadeguata da scatenare la superbia: il bisogno di sentirsi al centro dell'attenzione e della stima degli altri, la preoccupazione di fare bella figura, il non rassegnarsi a fare il bene senza farlo vedere, l'ansia per la propria sicurezza... In tal modo, molte anime che potrebbero godere di una pace meravigliosa e gustare una gioia incomparabile finiscono – per orgoglio e presunzione – per essere infelici e infeconde.
Cristo fu umile di cuore 68. In tutta la sua vita non volle per sé nulla di singolare, nessun privilegio. La sua esistenza umana ha inizio nel seno di sua Madre, ove permane nove mesi come ogni altro mortale, nel modo più naturale. Ben sapeva il Signore quale estremo bisogno avesse di Lui l'umanità, e ardente era la sua ansia di scendere sulla terra per la salvezza di tutte le anime: eppure ogni cosa segue il suo corso. Egli nacque quando giunse il suo momento, come ogni altro uomo sulla terra. Dal concepimento alla nascita, nessuno – tranne Giuseppe ed Elisabetta – si rende conto del prodigio: Dio viene a porre la sua dimora tra gli uomini.
Il Natale di Gesù è soffuso di ammirevole semplicità: il Signore viene senza risonanza, sconosciuto a tutti. Qui in terra, soltanto Maria e Giuseppe partecipano a questa avventura divina. Poi i pastori, ai quali gli angeli recano l'annunzio. E, più tardi, quei saggi dell'Oriente. È così che ha compimento l'evento trascendente che unisce il cielo alla terra, Dio all'uomo.
È mai possibile tanta insensibilità di cuore al punto di abituarsi a queste scene? Dio viene nell'umiltà perché ci sia possibile avvicinarlo, perché ci sia possibile corrispondere al suo amore con il nostro amore, perché la nostra libertà si arrenda non più soltanto alla manifestazione della sua potenza, ma anche allo splendore della sua umiltà.
Ineffabile grandezza di un bambino che è Dio! Suo Padre è il Dio che ha fatto i cieli e la terra, eppure Egli è lì, in una mangiatoia, quia non erat eis locus in diversorio 69, perché non c'era altro posto sulla terra per il Signore di tutto il creato.

Compì la volontà del Padre

19 Non mi discosto dal rigore della verità se affermo che Gesù cerca ancora una dimora: nel nostro cuore. Dobbiamo chiedergli perdono per la nostra sbadataggine, per la nostra ingratitudine. Dobbiamo chiedergli la grazia di non chiudere mai più davanti a Lui la porta della nostra anima.
Il Signore non ci nasconde che l'obbediente sottomissione alla volontà di Dio richiede spirito di rinuncia e di dedizione, perché l'amore non reclama diritti: vuole soltanto servire. E a Lui, che per primo ha percorso questo cammino, noi domandiamo: Gesù, come hai vissuto l'obbedienza? Usque ad mortem, mortem autem crucis 70, fino alla morte, e morte di croce. Bisogna uscire dal proprio guscio, complicarsi la vita, perderla per amore di Dio e delle anime. Ecco, tu volevi vivere, non volevi che ti accadesse alcunché: ma Dio ha volato diversamente. Vi sono due volontà: ma la tua volontà si pieghi alla volontà di Dio, e non la volontà di Dio si torca alla tua 71. Ho visto con gioia molte anime mettere in gioco la propria vita – come hai fatto tu, Signore, usque ad mortem – per compiere tutto quello che la volontà di Dio chiedeva; hanno impegnato tutte le loro aspirazioni e il loro lavoro professionale al servizio della Chiesa, per il bene di tutti gli uomini.
Dobbiamo imparare a obbedire, dobbiamo imparare a servire. Non c'è nobiltà più grande che decidere di darsi volontariamente in aiuto agli altri. Quando sentiamo che l'orgoglio ribolle dentro di noi, la superbia ci fa credere di essere dei superuomini, allora è il momento di dire di no, di dire che il nostro unico trionfo deve essere quello dell'umiltà. In tal modo ci identificheremo con Cristo crocifisso; e non nostro malgrado, insicuri e a malincuore, ma lietamente, perché la gioia nel momento dell'abnegazione è la dimostrazione più bella dell'amore.

20 Consentitemi di parlare ancora della schiettezza e della semplicità della vita di Gesù, che già tante volte vi ho fatto considerare. Gli anni della vita nascosta del Signore sono tutt'altro che insignificanti, né rappresentano una semplice preparazione agli anni della vita pubblica. Fin dal 1928 ho compreso con chiarezza che Dio desidera che i cristiani prendano esempio dalla vita del Signore tutta intera. Da allora ho capito appieno la sua vita nascosta, la sua vita di umile lavoro in mezzo agli uomini: il Signore vuole che molte anime trovino la loro via in quei suoi anni di vita silenziosa e senza splendore. Obbedire alla volontà di Dio, pertanto, è sempre un uscire dal proprio egoismo; ma non è detto che ciò sia possibile solo a condizione di abbandonare le circostanze ordinarie di una vita come è quella di coloro che, per il loro stato, la loro professione e il loro posto nella società, sono in tutto uguali a noi.
Il mio sogno – un sogno che è divenuto realtà – è che vi sia una moltitudine di figli di Dio che si santificano vivendo la condizione comune dei loro simili, condividendone le ansie, le aspirazioni, gli sforzi. Sento il bisogno di gridare loro questa divina verità: voi restate in mezzo al mondo non perché Dio si sia dimenticato di voi, non perché il Signore non vi abbia chiamati. Vi ha invitati a permanere in mezzo alle attività e agli impegni terreni facendovi capire che la vostra vocazione umana, il vostro lavoro, le vostre doti, lungi dall'essere estranee ai disegni divini, sono le cose che Egli ha santificato vivendole come offerta graditissima al Padre.

21 Quando si ricorda a un cristiano che la sua vita non ha altro senso che di obbedire alla volontà di Dio, non si pretende con questo di separarlo dagli uomini. Anzi, nella maggior parte dei casi il comandamento ricevuto dal Signore di amarci l'un l'altro come Egli ci ha amati 72 significa vivere accanto agli altri e allo stesso modo degli altri, pienamente dediti a servire il Signore in mezzo al mondo, per far meglio conoscere l'amore di Dio a tutte le anime: per dire a tutti che si sono aperti i cammini divini della terra.
Il Signore non si è limitato a dirci che ci amava, ma lo ha dimostrato con le opere. Non dimentichiamoci che il Signore si è incarnato per insegnare, perché noi apprendessimo a vivere la vita dei figli di Dio. Ricorderete il prologo dell'evangelista Luca negli Atti degli Apostoli 73: Primum quidem sermonem feci de omnibus, o Theophile, quae coepit Iesus facere et docere (ho parlato delle cose più notevoli che Gesù fece e insegno). Venne a insegnare, ma innanzitutto a fare; venne a insegnare, ma facendosi modello, facendosi Maestro ed esempio con la sua condotta.
Possiamo ora continuare il nostro esame di coscienza davanti a Gesù Bambino. Siamo decisi a fare in modo che la nostra vita serva di modello e di insegnamento agli uomini, nostri fratelli e nostri uguali? Ognuno di noi è deciso a essere un altro Cristo? Ma non basta dirlo con le labbra. Tu, che come cristiano sei chiamato a essere un altro Cristo – lo domando a ciascuno di voi e lo domando a me stesso – , meriti che si dica anche di te: coepit facere et docere?, e cioè che hai incominciato a fare le cose da figlio di Dio, attento alla volontà del Padre, in modo da spingere tutte le anime a prendere parte alle cose buone e nobili, divine e umane della Redenzione? Vivi la vita di Cristo nella tua vita ordinaria in mezzo al mondo?
Fare le opere di Dio non è una bella frase: significa corrispondere all'invito di spendere la propria vita per Amore. Bisogna morire a se stessi per rinascere a vita nuova. Tale è l'obbedienza di Gesù, usque ad mortem, mortem autem crucis: propter quod et Deus exaltavit illum 74, e per questo Dio lo esaltò. Quando si obbedisce alla volontà di Dio, la Croce è Risurrezione, esaltazione. È così che si compie in noi, momento per momento, la vita di Cristo; è così che potremo dire serenamente di aver vissuto cercando di essere buoni figli di Dio, di essere passati per questa terra facendo il bene, nonostante tutta la nostra miseria e gli errori personali, per quanto numerosi.
E quando verrà la morte – e verrà inesorabilmente – potremo accoglierla con gioia, come ho visto che l'hanno accolta tante persone sante a conclusione di un'esistenza ordinaria. Con gioia, vi dicevo, perché quando si imita Gesù nel fare il bene – e si obbedisce, e si porta la croce – nonostante le nostre miserie, risuscitiamo con Cristo, perché Cristo è veramente risorto: Surrexit Dominus vere! 75.
Il Signore che si è fatto bambino – meditatelo! – ha vinto la morte. Attraverso l'annientamento, l'umiltà e l'obbedienza, attraverso la divinizzazione della vita ordinaria e corrente delle creature, il Figlio di Dio è riuscito vincitore.
Tale è il trionfo di Gesù, di colui che ci ha elevati alla sua altezza, all'altezza dei figli di Dio, scendendo al nostro livello, al livello dei figli degli uomini.

 «    Il matrimonio, vocazione cristiana    » 

Omelia pronunciata nel Natale 1970

22 È Natale. Ritornano alla nostra mente i fatti e le circostanze che fanno da cornice alla nascita del Figlio di Dio, e il nostro sguardo si sofferma sulla grotta di Betlemme e sul focolare di Nazaret. Maria, Giuseppe, Gesù Bambino sono ora più che mai al centro del nostro cuore. Che cosa ci dice, che cosa ci insegna la vita semplice e meravigliosa della Sacra Famiglia?
Fra tante possibili considerazioni, ora voglio farne soprattutto una. La nascita di Gesù significa, come riferisce la Scrittura, la realizzazione della pienezza dei tempi 76, il momento scelto da Dio per manifestare in maniera completa il suo amore agli uomini, donandoci il proprio Figlio. La volontà divina si compie in mezzo alle circostanze più normali e comuni: una donna che partorisce, una famiglia, una casa. L'onnipotenza divina, lo splendore di Dio, passano attraverso l'umano, si uniscono all'umano. Da allora noi cristiani sappiamo che, con la grazia del Signore, possiamo e dobbiamo santificare tutte le realtà oneste della nostra vita. Non c'è situazione terrena, per quanto piccola e ordinaria possa sembrare, che non possa essere occasione di un incontro con Cristo e una tappa del nostro cammino verso il Regno dei Cieli.
Non è strano, perciò, che la Chiesa esulti nel contemplare la modesta dimora di Gesù, Maria e Giuseppe. È bello – si recita nell'inno di mattutino della festa della Sacra Famiglia – ricordare la piccola casa di Nazaret e l'esistenza semplice che vi si conduce, esaltare l'umile ingenuità che circonda Gesù, la sua vita nascosta. Lì, da bambino, Gesù imparo il mestiere di Giuseppe; lì crebbe in età esercitando il lavoro di artigiano. Vicino a Lui sedeva la dolce Madre; vicino a Giuseppe viveva la sposa amatissima, felice di poterlo aiutare e offrirgli le sue cure.
Quando penso ai focolari cristiani, mi piace immaginarli luminosi e allegri, come quello della Sacra Famiglia. Il messaggio del Natale risuona con forza: Gloria a Dio nell'alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà 77. A esso si collega il saluto dell'Apostolo: La pace di Cristo regni nei vostri cuori 78; la pace di saperci amati da Dio nostro Padre, di essere una sola cosa con Cristo, protetti dalla Vergine Maria Santissima e da san Giuseppe.
Questa è la grande luce che illumina la nostra vita e che, pur tra difficoltà e miserie personali, ci spinge ad andare avanti con perseveranza. Ogni focolare cristiano deve essere un'oasi di serenità in cui, al di sopra delle piccole contrarietà quotidiane, si avverte – come frutto di una fede reale e vissuta – un affetto intenso e sincero, una pace profonda.

Santità dell'amore umano

23 Il matrimonio cristiano non è una semplice istituzione sociale, né tanto meno un rimedio alle debolezze umane: e un'autentica vocazione soprannaturale. Sacramento grande in Cristo nella Chiesa, dice san Paolo 79 e, al tempo stesso, contratto che un uomo e una donna stipulano per sempre, perché – lo si voglia o no – il matrimonio istituito da Cristo è indissolubile: segno sacro che santifica, azione di Gesù che pervade l'anima di coloro che si sposano e li invita a seguirlo, perché in Lui tutta la vita matrimoniale si trasforma in un cammino divino sulla terra.
Gli sposi sono chiamati a santificare il loro matrimonio e a santificare se stessi in questa unione. Commetterebbero perciò un grave errore se edificassero la propria condotta spirituale volgendo le spalle alla famiglia o al margine di essa. La vita famigliare, i rapporti coniugali, la cura e l'educazione dei figli, lo sforzo economico per sostenere la famiglia, darle sicurezza e migliorarne le condizioni, i rapporti con gli altri componenti della comunità sociale: sono queste le situazioni umane più comuni che gli sposi cristiani devono soprannaturalizzare.
La fede e la speranza si devono manifestare nella serenità con cui si affrontano i problemi piccoli o grandi che sorgono in ogni famiglia e nello slancio con cui si persevera nel compimento del proprio dovere. In tal modo, ogni cosa sarà permeata di carità: una carità che porterà a condividere le gioie e le eventuali amarezze; a saper sorridere dimentichi delle proprie preoccupazioni per prendersi cura degli altri; ad ascoltare il proprio coniuge e i figli, dimostrando loro che li si ama e li si comprende davvero; a superare i piccoli attriti che l'egoismo tende a ingigantire; a svolgere con un amore sempre nuovo i piccoli servizi di cui è intessuta la convivenza quotidiana.
Si tratta di santificare giorno per giorno la vita domestica, creando con l'affetto reciproco un autentico ambiente di famiglia. Per santificare ogni giornata si devono esercitare molte virtù cristiane, quelle teologali in primo luogo, poi tutte le altre: la prudenza, la lealtà, la sincerità, l'umiltà, la laboriosità, la gioia...
Parlando del matrimonio e della vita coniugale, è necessario cominciare con un riferimento chiaro all'amore umano.

24 L'amore puro e limpido degli sposi è una realtà santa che io, come sacerdote, benedico con tutte e due le mani. La tradizione cristiana ha visto frequentemente nella presenza di Gesù alle nozze di Cana una conferma del valore divino del matrimonio: Il nostro Salvatore si reco a quelle nozze – scrive san Cirillo d'Alessandria – per santificare il principio della generazione umana 80
Il matrimonio è un sacramento che fa di due corpi una sola carne. La teologia afferma con forte espressione che la sua materia è costituita dal corpo stesso dei contraenti. Il Signore santifica e benedice l'amore del marito verso la moglie e quello della moglie verso il marito: ha disposto non solo la fusione delle loro anime, ma anche dei loro corpi. Nessun cristiano, sia o no chiamato alla vita coniugale, può quindi disprezzarla.
Il Creatore ci ha dato l'intelligenza, quasi una scintilla dell'intelletto divino che ci consente – assieme alla libera volontà, altro dono di Dio – di conoscere e amare; e ha posto nel nostro corpo la capacità di generare, partecipandoci il suo potere creatore. Dio ha voluto servirsi dell'amore coniugale per donare al mondo nuove creature e accrescere il corpo della sua Chiesa. Il sesso non è una realtà vergognosa, ma un dono divino ordinato schiettamente alla vita, all'amore, alla fecondità.
Questo è il contesto, lo sfondo in cui si colloca la dottrina cristiana sulla sessualità. La nostra fede non disconosce nulla di quante v'è di bello, di generoso, di genuinamente umano sulla terra. Ci insegna che la regola del nostro vivere non deve essere la ricerca egoistica del piacere, perché solo la rinuncia e il sacrificio portano al vero amore: Dio ci ha amati e ci invita ad amarlo e ad amare gli altri secondo la verità e l'autenticità con cui Egli ci ama. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la ritroverà 81: è questo l'apparente paradosso del Vangelo.
Le persone continuamente preoccupate di se stesse, che agiscono cercando innanzitutto la propria soddisfazione, mettono in pericolo la loro salvezza eterna, e già in questa vita sono inevitabilmente infelici. Può essere felice sulla terra, di una felicità che è preparazione e anticipo del Cielo, solo chi dimentica se stesso – nel matrimonio come in ogni situazione – e si dedica a Dio e agli altri.
Durante la nostra vita sulla terra, il dolore è la pietra di paragone dell'amore. In modo plastico potrei dire che nel matrimonio c'è un dritto e un rovescio. Da una parte, la gioia di sapersi amati, l'entusiasmo di edificare e di consolidare una famiglia, l'amore coniugale, la consolazione di veder crescere i figli. Dall'altra, dolori e contrarietà, il trascorrere del tempo che logora i corpi e minaccia di inacidire i caratteri, l'apparente monotonia dei giorni che sembrano sempre uguali.
Avrebbe un ben povero concetto del matrimonio e dell'affetto umano chi pensasse che, nell'urto contro queste difficoltà, l'amore e la gioia vengano meno. È proprio allora, invece, che i sentimenti che animavano quelle creature rivelano la loro vera natura, che la donazione e la tenerezza si rafforzano e si manifestano come affetto autentico e profondo, più potente della morte 82.

25 Questa autenticità dell'amore richiede fedeltà e rettitudine in tutti i rapporti matrimoniali. Dio – commenta san Tommaso d'Aquino 83 – ha unito alle diverse funzioni della vita umana un piacere, una soddisfazione; quindi, questo piacere e questa soddisfazione sono buoni. Ma se l'uomo, invertendo l'ordine delle cose, cerca tali sensazioni come valore ultimo, disprezzando il bene e il fine a cui devono essere connesse e ordinate, le perverte, le snatura, trasformandole in peccato o in occasione di peccato.

La castità coniugale

La castità – che non è semplice continenza, bensì affermazione decisa di una volontà innamorata – è una virtù capace di conservare la giovinezza dell'amore in qualunque stato di vita. Vi è la castità di coloro che sentono il destarsi della pubertà, la castità di coloro che si avviano al matrimonio, la castità di chi è chiamato da Dio al celibato, la castità di chi è già stato scelto da Dio per vivere nel matrimonio.
Come non ricordare le parole energiche e chiare tramandateci dalla Vulgata, con le quali l'arcangelo Raffaele ammonisce Tobia prima delle nozze con Sara? Ascoltami – dice l'angelo – e ti mostrerò chi sono coloro contro i quali può prevalere il demonio. Sono quelli che abbracciano il matrimonio in modo tale da escludere Dio da sé e dalla loro mente, e si lasciano trascinare dalla passione come il cavallo e il mulo, che sono privi di intelletto. Su costoro ha potere il diavolo 84.
Non c'è posto per un amore schietto, sincero e felice quando nel matrimonio non si vive la virtù della castità, che rispetta il mistero della sessualità e lo ordina alla fecondità e alla donazione. Io non parlo mai di impurità ed evito sempre di scendere in casistiche morbose e senza senso; ma di castità e di purezza, di affermazione lieta dell'amore, ho parlato moltissime volte, e devo parlarne.
In tema di castità coniugale, esorto gli sposi a non temere di esprimersi l'affetto; anzi, devono farlo, perché questa inclinazione è la base della vita famigliare. Quello che il Signore chiede loro è il rispetto reciproco, la mutua lealtà, un comportamento improntato a delicatezza, a naturalezza, a modestia. Vi dirò anche che i rapporti coniugali sono decorosi quando sono prova di vero amore e, quindi, sono aperti alla fecondità, ai figli.
Chiudere le fonti della vita è un delitto contro i doni che Dio ha concesso all'umanità, è un segno evidente che è l'egoismo e non l'amore a ispirare la condotta. Allora la vita cristiana si intorbida, perché i coniugi finiscono per guardarsi come complici: e nascono i dissensi che, di questo passo, divengono quasi sempre insanabili.
Quando l'amore è ravvivato dalla castità coniugale, la vita matrimoniale è espressione di una condotta autentica, e marito e moglie si comprendono e si sentono uniti. Se in vece il bene divino della sessualità si perverte, allora l'intimità si distrugge, e l'uomo e la donna non sanno più guardarsi serenamente negli occhi.
Gli sposi devono costruire la loro convivenza su un affetto sincero e limpido e sulla gioia di mettere al mondo i figli che Dio dà loro la possibilità di avere, sapendo all'occorrenza rinunciare a comodità personali e avendo fede nella Provvidenza divina. Formare una famiglia numerosa, se tale è la volontà di Dio, è una garanzia di felicità e di efficacia, checché ne dicano i tristi fautori di un cieco edonismo.

26 Non dimenticate che tra gli sposi non è sempre possibile evitare i contrasti. Ma voi non litigate mai davanti ai figli: li fareste soffrire e li indurreste a parteggiare per l'uno o per l'altra, contribuendo forse inconsapevolmente ad aumentare la vostra disunione. Tuttavia i bisticci, purché non troppo frequenti, sono anch'essi una manifestazione d'amore, quasi una necessità. L'occasione, non il motivo, è di solito la stanchezza del marito, spossato dal lavoro, o la fatica – speriamo che non sia il tedio – della moglie che ha avuto da fare con i bambini, con le faccende domestiche e con il suo stesso carattere, a volte un po' instabile (anche se le donne, quando vogliono, sono più forti degli uomini).
Evitate l'orgoglio, che è il peggior nemico della vostra vita coniugale: nelle vostre piccole liti nessuno ha ragione. Il più sereno dei due deve dire una parola che valga a trattenere il malumore fino a più tardi. E più tardi – da soli – litigate pure, tanto poi farete subito la pace.
Voi donne fate attenzione a non trascurare la cura della vostra persona; ricordate il proverbio: « Quando la moglie non si trascura, il marito non cerca l'avventura ». È sempre attuale il dovere di essere attraenti, come quando eravate fidanzate; dovere di giustizia, perché appartenete a vostro marito. Nemmeno lui deve dimenticare che vi appartiene e che ha l'obbligo di essere per tutta la vita affettuoso come un fidanzato. Brutto segno se sorridete ironicamente a queste mie parole: sarebbe una prova evidente che l'affetto famigliare si è trasformato in gelida indifferenza.

Focolari luminosi e allegri

27 Non si può parlare di matrimonio senza pensare subito alla famiglia, che è il frutto e la continuazione di ciò che con il matrimonio si inizia. La famiglia è composta non solo dal marito e dalla moglie, ma anche dai figli e, in gradi differenti, dai nonni, dagli altri congiunti e dalle collaboratrici domestiche. A tutti costoro deve giungere quel calore affettuoso e intimo di cui si alimenta un vero ambiente famigliare.
Certo, ci sono degli sposi ai quali il Signore non manda figli: è segno allora che Egli chiede loro di volersi bene con immutato affetto, e di dedicare le loro energie – per quel che possono – a servizi e iniziative per il bene di altre anime. Ma di solito il matrimonio è fecondo, e allora i figli devono costituire la prima preoccupazione degli sposi. La paternità e la maternità non si esauriscono nel momento in cui il figlio nasce: la facoltà di generare – partecipazione al potere di Dio – deve continuare poi come cooperazione all'opera dello Spirito Santo e culminare nella formazione di uomini e donne autenticamente cristiani.
I genitori sono i principali educatori dei figli, sia nell'aspetto umano che in quello soprannaturale, e devono sentire la responsabilità di questa missione che esige comprensione, prudenza, capacità di insegnare e, soprattutto, di amare; nonché l'impegno di dare buon esempio.
L'imposizione autoritaria e violenta non è una buona risorsa educativa. L'ideale per i genitori consiste piuttosto nel farsi amici dei figli: amici ai quali si confidano le proprie inquietudini, con cui si discutono i diversi problemi, dai quali ci si aspetta un aiuto efficace e sincero.
È necessario che i genitori trovino il tempo di stare con i figli e parlare con loro. I figli sono la loro cosa più importante: più degli affari, più del lavoro, più dello svago. In queste conversazioni bisogna ascoltarli con attenzione, sforzarsi di comprenderli, saper riconoscere la parte di verità – o tutta la verità – che può esserci in alcune loro ribellioni. E allo stesso tempo bisogna aiutarli a incanalare rettamente ansie e aspirazioni, inseguendo loro a riflettere sulla realtà delle cose e a ragionare. Non si tratta di imporre una determinata linea di condotta, ma di mostrare i motivi, soprannaturali e umani, che la raccomandano. In una parola, si tratta di rispettare la loro libertà, poiché non c'è vera educazione senza responsabilità personale, né responsabilità senza libertà.

28 I genitori educano soprattutto con la loro condotta. Quello che i figli e le figlie cercano nel padre e nella madre non è soltanto un'esperienza più vasta della loro, o consigli più o meno giusti, ma qualcosa di più importante: una testimonianza sul valore e sul senso della vita, una testimonianza incarnata in un'esistenza concreta, convalidata nelle diverse circostanze e situazioni che si avvicendano lungo l'arco degli anni.
Se dovessi dare un consiglio ai genitori, direi soprattutto questo: fate che i vostri figli – che fin da bambini, non illudetevi, notano e giudicano tutto – vedano che voi cercate di vivere con coerenza la vostra fede, che Dio non è solo sulle vostre labbra, ma è presente nelle vostre opere, che vi sforzate di essere sinceri e leali, che vi amate e li amate veramente.
Così contribuirete efficacemente a fare di loro dei veri cristiani, uomini e donne integri, capaci di affrontare con spirito aperto le diverse situazioni della vita, capaci di porsi al servizio dei loro simili, di contribuire alla soluzione dei grandi problemi dell'umanità, e di testimoniare Cristo nella società a cui domani apparterranno.

29 Ascoltate i vostri figli, dedicate loro anche il tempo vostro, date fiducia, credete a ciò che vi dicono, anche se talvolta vi ingannano; non meravigliatevi delle loro "contestazioni", giacché anche voi alla loro età siete stati più o meno contestatori; andate loro incontro, a metà strada, e pregate per loro. Se agirete secondo questo stile cristiano, quando essi avranno delle legittime curiosità, anziché rivolgersi a un amico volgare e senza pudore, si rivolgeranno a voi con semplicità. La vostra fiducia, il vostro contegno amichevole, riceveranno come risposta la loro sincerità. E tutto questo – anche se permangono piccoli contrasti e incomprensioni di poco conto – è quello che si chiama pace famigliare, vita cristiana.
Come descriverò – si domanda uno scrittore dei primi secoli
la felicità di questo matrimonio che la Chiesa fonda, la reciproca offerta conferma, la benedizione suggella, gli angeli proclamano e Dio stesso ha celebrato? [...] I due sposi sono come fratelli, servi l'uno dell'altra, senza che si dia fra loro separazione alcuna, né nella carne né nello spirito. Perché veramente sono due in una sola carne, e dove c'è una sola carne deve esserci un solo spirito [...] Contemplando questi focolari, Cristo si rallegra e invia la sua pace; dove sono due, lì c'è anche Lui, e dove c'è Lui non può esserci alcun male 85.

30 Abbiamo cercato di ricordare e commentare alcuni lineamenti dei focolari in cui si riflette la luce di Cristo, e che sono perciò focolari luminosi e allegri: in essi l'armonia che regna tra i genitori si trasmette ai figli, a tutta la famiglia e all'ambiente circostante. Così, in ogni famiglia autenticamente cristiana, si riproduce in un certo modo il mistero della Chiesa, scelta da Dio e inviata come guida del mondo.
A ogni cristiano, qualunque sia la sua condizione – sacerdote o laico, sposato o celibe – si adattano pienamente le parole dell'Apostolo che si leggono nell'epistola della festa della Sacra Famiglia: Scelti da Dio, santi e amati l 86. Tali siamo tutti noi, ciascuno nel suo posto nel mondo, nel luogo che a ciascuno è proprio: uomini e donne scelti da Dio per rendere testimonianza a Cristo e portare a chi ci circonda la gioia di sapersi figli di Dio, nonostante i nostri errori, contro cui dobbiamo lottare efficacemente.
È molto importante che il senso vocazionale del matrimonio sia sempre presente, tanto nella catechesi e nella predicazione quanto nella coscienza di coloro che Dio prepara a questo cammino, poiché è attraverso di esso che sono realmente chiamati a incorporarsi al disegno divino di salvezza di tutti gli uomini.
Non si può quindi proporre agli sposi cristiani un modello migliore di quello delle famiglie dei tempi apostolici: la famiglia del centurione Cornelio, che fu docile alla volontà di Dio e nella cui casa si realizzò l'apertura della Chiesa ai gentili 87, quella di Aquila e Priscilla, che diffusero il cristianesimo a Corinto e a Efeso e collaborarono all'apostolato di san Paolo 88; quella di Tabita, che con la sua carità soccorse i bisognosi di Joppe 89, e tanti altri focolari di giudei e di gentili, di greci e di romani, nei quali attecchì la predicazione dei primi discepoli del Signore.
Famiglie che vissero di Cristo e che fecero conoscere Cristo; piccole comunità cristiane che furono come centri di irradiazione del messaggio evangelico. Focolari come tanti altri di quei tempi, ma animati da uno spirito nuovo che contagiava chi li avvicinava e li frequentava. Così furono i primi cristiani, e così dobbiamo essere noi, cristiani di oggi: seminatori di pace e di gioia, della pace e della gioia che Gesù ci ha guadagnato.

 «    L'Epifania del Signore    » 

31 Non molto tempo fa, ho avuto occasione di ammirare un rilievo in marmo che rappresentava l'adorazione dei Magi al Dio Bambino. Gli facevano corona altri rilievi raffiguranti quattro angeli, ognuno con un simbolo: un diadema, il mondo coronato dalla croce, una spada, uno scettro. In questo modo plastico, utilizzando segni ben noti, si è voluto illustrare l'avvenimento che oggi commemoriamo: alcuni sapienti – la tradizione dice che erano dei re – si prostrano davanti a un Bambino, dopo aver domandato a Gerusalemme: Dov'è il re dei giudei che è nato? 90.
Anch'io, spinto da questa domanda, contemplo ora Gesù adagiato in una mangiatoia 91, cioè in un posto adatto solo agli animali. Dove sono, Signore, la tua regalità, il diadema, la spada, lo scettro? Gli appartengono, ma non ne fa uso; regna avvolto in fasce. È un re che appare a noi inerme, indifeso; un piccolo bambino. Come non ricordare le parole dell'Apostolo: Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo? 92.
Il Signore nostro si è incarnato per manifestarci la volontà del Padre, e ci ammaestra fin dalla culla. Gesù ci cerca – con vocazione che è vocazione alla santità – affinché assieme a Lui portiamo a compimento la Redenzione. Ascoltiamo il suo primo insegnamento: dobbiamo corredimere cercando non il trionfo sul nostro prossimo, ma su noi stessi. A imitazione di Cristo, dobbiamo annullarci e metterci al servizio degli altri, per condurli a Dio.
Dov'è il re? Dove cercarlo se non là dove vuole regnare, cioè nel cuore, nel tuo cuore? Per questo si fa bambino: chi non ama infatti una piccola creatura? Dov'è allora il re, il Cristo che lo Spirito Santo cerca di formare nella nostra anima? Non può essere di certo nella superbia che ci separa da Dio, non nella mancanza di carità che ci isola. Lì Cristo non c'è; lì l'uomo resta solo.
Ai piedi di Gesù Bambino, nel giorno dell'Epifania, davanti a un Re che non porta segni esterni di regalità, noi diciamo: Signore, strappa la superbia dalla mia vita, distruggi il mio amor proprio, la mia smania di affermazione, di impormi sugli altri. Fa' che l'identificazione con te sia il fondamento della mia personalità.

Il cammino della fede

32 La meta non è facile: identificarsi con Cristo. Ma neppure è difficile, se viviamo come il Signore ci ha insegnato: cioè se facciamo quotidiano ricorso alla sua Parola e impregniamo la nostra vita della realtà sacramentale – l'Eucaristia – che Egli ci ha lasciato in alimento, perché la condizione del cristiano sulla terra è quella del viandante. Dio ci ha chiamati con inequivocabile chiarezza. Come i Magi, anche noi abbiamo scoperto nel cielo dell'anima la stella che ci guida e illumina.
Abbiamo visto la sua stella in Oriente, e siamo venuti ad adorarlo 93. Tale è anche la nostra esperienza. Anche noi abbiamo notato che nell'anima, a poco a poco, si accendeva una luce nuova: il desiderio di essere pienamente cristiani; l'ansia, direi, di prendere Dio sul serio. Se ognuno di noi volesse ora raccontare ad alta voce l'intimo sviluppo della sua vocazione soprannaturale, tutti riconosceremmo che è stata una cosa divina. Ringraziamo Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo, e Maria Santissima, dalla cui mediazione ci vengono tutte le benedizioni del Cielo, del dono che, assieme a quello della fede, è il più grande che il Signore può concedere a una creatura: il dono di un impulso efficace per giungere alla pienezza della carità, convinti che è necessario – e non solo possibile – raggiungere la santità anche in mezzo alle attività professionali, sociali...
Guardate con quanta delicatezza ci invita il Signore; si esprime con parole umane, come un innamorato: Io ti ho chiamato per nome, tu mi appartieni 94. Dio, che è la bellezza, la grandezza, la sapienza, ci annuncia che gli apparteniamo, che siamo stati scelti come oggetto del suo amore infinito. È necessaria una forte vita di fede per non sciupare questa meraviglia che la Provvidenza divina affida alle nostre mani: ci vuole una fede come quella dei Magi, che ci faccia convinti che né deserto, né tempeste, né la quiete delle oasi ci impediranno di giungere alla meta della Betlemme eterna, della vita definitiva in Dio.

33 Un cammino di fede è un cammino di sacrificio. La vocazione cristiana non ci toglie dal nostro posto, ma esige che abbandoniamo tutto ciò che è di ostacolo al volere divino. La luce che si accende non è che l'inizio: dobbiamo seguirla, se vogliamo che quella luce divenga stella e poi sole. Finché i Magi sono in Persia – scrive san Giovanni Crisostomo – non vedono che una stella; ma quando abbandonano la loro patria, vedono il sole stesso di giustizia. Non avrebbero più visto nemmeno la stella se fossero rimasti nel loro paese. Affrettiamoci perciò anche noi; e anche se tutti volessero impedircelo, corriamo alla casa di questo Bambino 95.

Fermezza nella vocazione

Abbiamo visto la sua stella in Oriente, e siamo venuti ad adorarlo. All'udir queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme 96. Ancora oggi si ripete questa scena. Davanti alla grandezza di Dio, davanti alla decisione pienamente umana e profondamente cristiana di vivere in modo coerente la propria fede, non mancano coloro che, sconcertati, si meravigliano o addirittura si scandalizzano. Sembra che non concepiscano altra realtà che quella che rientra nei loro limitati orizzonti terreni. Davanti alle prove di generosità di quanti hanno ascoltato la chiamata del Signore, sorridono con un senso di superiorità, si spaventano o – in alcuni casi veramente patologici – concentrano tutti i loro sforzi per impedire la santa decisione che una coscienza ha preso in piena libertà.
Io ho assistito, in più di una occasione, a ciò che potrei chiamare una mobilitazione generale contro chi aveva deciso di dedicare tutta la vita al servizio di Dio e degli uomini. Vi sono delle persone convinte che il Signore non può scegliere chi vuole Lui, secondo il suo beneplacito, senza chiedere il loro permesso; o convinte che l'uomo non è capace di piena libertà per rispondere di sì all'Amore o respingerlo. La vita soprannaturale delle singole anime è qualcosa di secondario per chi ragiona in questo modo. Ritengono che essa meriti attenzione solamente dopo che sono state soddisfatte fin le più piccole comodità e tutti gli egoismi umani. Se così fosse, che cosa resterebbe del cristianesimo? Le parole di Gesù, amorose e allo stesso tempo esigenti, sono solo da ascoltare o anche da mettere in pratica? Egli ha detto: Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste 97.
Il Signore si rivolge a tutti gli uomini perché tutti gli vadano incontro, perché tutti siano santi. Non chiama soltanto i Magi, uomini saggi e potenti; prima aveva inviato ai pastori di Betlemme non già una stella, ma uno dei suoi angeli 98. Ma tutti, poveri o ricchi, sapienti o meno, devono maturare nell'anima la disposizione umile che permette di ascoltare la voce di Dio.
Pensate a Erode: è un potente della terra, e ha la possibilità di servirsi della collaborazione dei sapienti. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia 99. Ma la sua potenza e la sua scienza non lo portano a riconoscere Dio. Per il suo cuore indurito, potere e scienza sono strumenti di malizia, di desiderio vano di annientare Dio, di disprezzo per la vita di un pugno di bambini innocenti.
Continuiamo a leggere il santo Vangelo. Gli risposero: « A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele » " 100. Non possiamo sorvolare su questi particolari della misericordia divina: colui che veniva a redimere il mondo nasce in un villaggio sperduto. Ma Dio – ci ripete insistentemente la Scrittura – non fa discriminazione di persone 101. Per invitare un'anima a una vita di piena coerenza con la fede non considera i suoi meriti, la nobiltà della famiglia, l'altezza della sua coscienza. La vocazione precede tutti i meriti: La stella che avevano visto in Oriente li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il Bambino 102.
La vocazione precede ogni cosa; prima ancora di poterci rivolgere a Lui, Dio ci ama e suscita in noi l'amore con il quale corrispondergli. La paterna bontà di Dio ci viene incontro 103. Nostro Signore non soltanto è giusto; Egli è molto di più: e misericordioso. Non aspetta che ci rivolgiamo a Lui; ci previene con segni palesi di affetto paterno.

Il buon pastore

34 La vocazione è la prima realtà e, come la stella, splende davanti a noi e prima che noi fossimo, per orientarci nel nostro cammino di amore a Dio; quindi non è ragionevole nutrire dei dubbi se mai qualche volta ci nascondesse la sua luce. In determinati momenti della nostra vita interiore, quasi sempre per colpa nostra, può capitare quello che accadde ai Magi nel loro viaggio: la stella scompare. Conosciamo ormai lo splendore divino della nostra vocazione e siamo persuasi del suo carattere definitivo; ma forse la polvere che solleviamo nel camminare – la polvere delle nostre miserie – forma una spessa nube che impedisce alla luce di filtrare.
Che fare, allora? Seguire l'esempio di quegli uomini santi: domandare. Erode si servì della scienza per comportarsi ingiustamente; i Magi l'utilizzano per operare il bene. Ma noi cristiani non abbiamo bisogno di chiedere nulla a Erode e ai sapienti della terra. Cristo ha dato alla sua Chiesa la sicurezza della dottrina e il flusso ininterrotto della grazia dei sacramenti; ha disposto inoltre che vi siano persone capaci di orientare, di guidare, di riproporre costantemente il cammino. Possiamo disporre di un tesoro infinito di scienza: la parola di Dio, custodita nella Chiesa; la grazia di Cristo, che viene data nei sacramenti; la testimonianza e l'esempio di chi vive rettamente vicino a noi, di chi ha saputo costruire con la sua vita un cammino di fedeltà a Dio.
Permettetemi un consiglio: se qualche volta perdeste la chiarezza della luce, ricorrete sempre al buon pastore. Chi è il buon pastore? Colui che entra dalla porta della fedeltà alla dottrina della Chiesa; colui che non si comporta come il mercenario che vedendo venire il lupo, abbandona le pecore e fugge; e il lupo le assale e disperde il gregge 104. Badate che la Parola divina non è vana; e l'insistenza di Cristo
– non vedete con quale sollecitudine parla di pastori e di pecore, dell'ovile e del gregge? – è una dimostrazione pratica della necessità di una buona guida per la nostra anima.
Se non ci fossero cattivi pastori – scrive sant'Agostino – Egli non avrebbe usato il qualificativo "buono". E chi è il mercenario? Colui che fugge, se vede il lupo; colui che cerca la sua gloria, non la gloria di Cristo; colui che non ha il coraggio di riprendere con libertà di spirito i peccatori. Il lupo azzanna una pecora e la trascina per il collo; il diavolo induce un fedele a commettere adulterio. E tu taci, non riprendi. Tu sei mercenario; hai visto venire il lupo e sei fuggito. Forse egli dirà: no, sono qui, non sono fuggito. No, rispondo, sei fuggito perché hai taciuto; e hai taciuto perché hai avuto paura 105.
La sposa di Cristo ha sempre manifestato la sua santità – e oggi non meno di ieri – grazie all'abbondanza di buoni pastori. Non dimentichiamo però che la fede cristiana ci insegna a essere semplici, ma non ingenui. Ci sono dei mercenari che tacciono e altri che dicono parole che non sono di Cristo. Pertanto, se il Signore permette che restiamo nell'oscurità, sia pure in cose piccole, se sentiamo che la nostra fede è insicura, ricorriamo al buon pastore. Ritorniamo a colui che entra dalla porta, esercitando il suo diritto; a colui che, dando la sua vita per gli altri, vuole essere, nella parola e nella condotta, un'anima innamorata; a colui che è fors'anche un peccatore, ma un peccatore che confida sempre nel perdono e nella misericordia di Cristo.
Se la coscienza vi rimprovera qualche mancanza – anche se non vi sembra grave – ricorrete, nel dubbio, al sacramento della Penitenza. Recatevi dal sacerdote che può aver cura di voi, che sa esigere da voi fede vigorosa, delicatezza d'animo, vera fortezza cristiana. Nella Chiesa esiste piena libertà di confessarsi da qualunque sacerdote che ne abbia ricevuto la facoltà; ma un cristiano di visione chiara ricorrerà – liberamente – a colui che riconosce come buon pastore, a colui che può aiutarlo a elevare lo sguardo e a ritrovare lassù la stella del Signore.

Oro, incenso e mirra

35 Videntes autem stellam, gavisi sunt gaudio magno valde 106; così il testo latino, con quell'ammirevole ripetizione: hanno scoperto nuovamente la stella e gioiscono di grandissima gioia. Perché tanta letizia? Perché essi, che non avevano mai dubitato, ricevono dal Signore la prova che la stella non era scomparsa: non potevano più contemplarla sensibilmente, ma l'avevano conservata sempre nell'anima. Tale è anche la vocazione del cristiano: se non si perde la fede e si mantiene la speranza in Gesù Cristo, che sarà con noi fino alla consumazione dei secoli 107, la stella riappare. E quando si comprova una volta di più la realtà della vocazione, nasce, più grande che mai, una gioia che aumenta in noi la fede, la speranza e l'amore.
Entrati nella casa, videro il Bambino con Maria, sua Madre, e prostratisi lo adorarono 108. Ci inginocchiamo anche noi dinanzi a Gesù, al Dio nascosto nell'umanità: gli ripetiamo che non vogliamo voltare le spalle alla sua divina chiamata, che non ci allontaneremo mai da Lui, che toglieremo dal nostro cammino tutto ciò che è di ostacolo alla fedeltà, che desideriamo sinceramente essere docili alle sue ispirazioni. Tu, nel tuo intimo, e io con te – perché anch'io faccio la mia orazione interiore, con grida profonde e silenziose – stiamo dicendo al Bambino che desideriamo compiere la sua volontà, come quei servitori della parabola, affinché possa dire anche a noi: Rallegrati, servo buono e fedele 109.
Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra 110. Fermiamoci un po' e cerchiamo di capire questo passo del Vangelo. Come è possibile che noi, che siamo nulla e nulla valiamo, possiamo fare delle offerte a Dio? Dice la scrittura: Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall'alto 111. L'uomo non riesce neppure a scoprire pienamente la profondità e la bellezza dei doni del Signore: Se tu conoscessi il dono di Dio! 112, dice Gesù alla samaritana. Gesù ci ha insegnato ad attendere tutto dal Padre, a cercare prima di ogni cosa il regno di Dio e la sua giustizia, perché tutto il resto ci sarà dato in sovrappiù, ed Egli sa bene di che cosa abbiamo bisogno 113.
Nell'economia della salvezza, il Padre nostro dei Cieli si prende cura di ogni anima con amorosa delicatezza: Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro 114. Sembrerebbe pertanto inutile preoccuparsi di presentare al Signore qualcosa di cui Egli possa aver bisogno; dalla situazione di debitori che non hanno di che pagare 115, i nostri doni sarebbero simili a quelli dell'Antica Legge, che Dio ormai non accetta più: Non hai volato e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose tutte che vengono offerte secondo la Legge 116.
Ma il Signore sa che il dare è proprio degli innamorati, ed Egli stesso ci indica che cosa desidera da noi. Non gli importano le ricchezze, i frutti o gli animali della terra, del mare o dell'aria, perché tutto è suo; vuole qualcosa di intimo che gli dobbiamo offrire con libertà: Figlio mio, dammi il tuo cuore 117. Vedete? Non si accontenta di spartire: vuole tutto. Torno a ripetere che non cerca le nostre cose, cerca noi stessi. Solo da qui, da questo primo dono, acquistano senso tutti gli altri doni che possiamo offrire al Signore.
Diamogli pertanto dell'oro: l'oro puro dello spirito di distacco dal denaro e dai mezzi materiali, cose che pure sono buone, perché vengono da Dio. Ma il Signore ha disposto che le utilizzassimo senza lasciarvi il cuore, mettendole a frutto per il bene comune di tutti gli uomini.
I beni della terra non sono cattivi; si pervertono quando l'uomo li trasforma in idoli, davanti ai quali si prostra; si nobilitano, invece, quando li usiamo come strumenti di bene, in un compito cristiano di giustizia e di carità. Non possiamo correre dietro ai beni materiali, come se in essi fosse il nostro tesoro. Il nostro tesoro è qui, adagiato in una mangiatoia; è Cristo, e in Lui devono orientarsi tutti i nostri affetti, perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore 118.

36 Offriamogli poi l'incenso: è l'anelito, che sale fino al Signore, di condurre una vita nobile che diffonda intorno a sé il bonus odor Christi 119, il profumo di Cristo. Quando le parole e le azioni sono impregnate del bonus odor, si semina comprensione, amicizia. La nostra vita deve accompagnare quella degli altri perché nessuno sia o si senta solo. La nostra carità deve essere anche affetto, calore umano.
Ce lo insegna Gesù. L'umanità attendeva da secoli la venuta del Salvatore; i profeti l'avevano annunciato in mille modi; e fin nei più remoti angoli della terra – benché si fosse perduta, per il peccato e l'ignoranza, gran parte della rivelazione di Dio agli uomini – si conservava il desiderio di Dio, l'ansia di essere redenti.
Giunge la pienezza dei tempi e per compiere questa missione non viene a noi un genio filosofico come Platone o Socrate, non si stabilisce sulla terra un potente conquistatore come Alessandro Magno. Nasce un bambino a Betlemme. È il Redentore del mondo; e ancor prima di parlare ama con le opere. Non porta nessuna formula magica, perché sa che la salvezza che offre deve passare attraverso il cuore dell'uomo. E affinché ci innamorassimo di Lui e sapessimo accoglierlo nelle nostre braccia, le sue prime azioni sono il sorriso e il pianto di un bambino, il sonno inerme di un Dio incarnato.
Ci rendiamo conto una volta di più che il cristianesimo è fatto così. Se il cristiano non ama con le opere, è fallito come cristiano; ed è come dire che è fallito anche come uomo. Non puoi pensare agli altri come fossero dei numeri o degli scalini per arrampicarsi; oppure come fossero massa da esaltare o da umiliare, da adulare o disprezzare, a seconda dei casi. Prima di ogni altra cosa, devi pensare agli altri, a coloro che ti sono vicini, stimandoli per quello che sono: figli di Dio, con tutta la dignità di questo titolo meraviglioso.
Con i figli di Dio dobbiamo comportarci come figli di Dio: il nostro amore deve essere abnegato, quotidiano, ricco di mille sfumature di comprensione, di sacrificio silenzioso, di donazione nascosta. È questo il bonus odor Christi che faceva dire a quelli che vivevano tra i primi fratelli nella fede: Guardate come si amano! 120.
Non si tratta di un ideale remoto. Il cristiano non è un Tartarino di Tarascona che pretende di cacciare leoni là dove non può trovarli: nel corridoio di casa sua. Desidero parlare sempre della vita quotidiana e concreta: quella della santificazione del lavoro, dei rapporti famigliari, dell'amicizia. Se non siamo cristiani in queste occasioni, dove mai lo saremo? Il buon odore dell'incenso promana da un carbone acceso che brucia, umilmente, una manciata di granelli; il bonus odor Christi si avverte, in mezzo agli uomini, non per la fiammata di un fuoco fatuo, ma per l'efficacia delle braci accese delle virtù: la giustizia, la lealtà, la fedeltà, la comprensione, la generosità, la gioia...

37 Assieme ai Magi, offriamo infine la mirra, ossia il sacrificio, che non deve mai mancare nella vita cristiana. La mirra ci porta alla memoria la Passione del Signore: sulla croce gli diedero da bere mirra mista a vino 121, e con la mirra unsero il suo corpo per la sepoltura 122. Ma non crediate che riflettere sulla necessità del sacrificio e della mortificazione sia come aggiungere una nota di tristezza alla gioia della festa che oggi celebriamo.
Mortificazione non è pessimismo, non è grettezza d'animo. La mortificazione non vale niente senza la carità. Dobbiamo pertanto cercare sacrifici che, pur rendendoci capaci di padroneggiare le cose della terra, non mortifichino coloro che convivono con noi. Il cristiano non può essere né carnefice né meschino; è un uomo che sa amare con le opere, che saggia il suo amore con la pietra di paragone del dolore.
Devo dire peraltro, ancora una volta, che tale mortificazione non consisterà ordinariamente in grandi rinunce, che non saranno neppure frequenti; sarà composta di piccole vittorie: sorridere a chi ci importuna, negare al corpo capricciosi desideri superflui, abituarsi ad ascoltare gli altri, far fruttare il tempo che Dio ci mette a disposizione... E tante altre piccole cose apparentemente senza senso – contrarietà, difficoltà, amarezze – che si presentano senza essere cercate nel corso di ogni giornata.

Sancta Maria, Stella Orientis

38 Concludo ripetendo alcune parole del Vangelo odierno: Entrati nella casa, videro il Bambino, con Maria, sua madre. La Madonna non si separa da suo figlio. I Magi non sono ricevuti da un re assiso sul trono, ma da un bambino nelle braccia di sua madre. Chiediamo alla Madre di Dio e Madre nostra di guidarci al cammino che porta all'amore pieno: Cor Mariae dulcissimum, iter para tutum! Il suo dolce cuore conosce la via più sicura per trovare Cristo.
I Magi ebbero una stella; noi abbiamo Maria, stella maris, stella Orientis. E oggi le diciamo: Maria Santissima, stella del mare, stella del mattino, aiuta i tuoi figli. Il nostro zelo per le anime non deve conoscere frontiere, poiché nessuno è escluso dall'amore di Cristo. I Magi furono le primizie dei gentili; ma consumata la Redenzione, non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna – non c'è discriminazione alcuna – poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù 123.
Noi cristiani non possiamo essere esclusivisti, non possiamo discriminare o classificare le anime. Molti verranno dall'Oriente e dall'Occidente 124; tutti hanno spazio nel cuore di Cristo. Le sue braccia – guardiamolo di nuovo nel presepe – sono quelle di un bambino: ma sono le stesse che aprirà sulla croce per attirare a sé tutti gli uomini 125.
Un ultimo pensiero per quell'uomo giusto, san Giuseppe, nostro padre e signore, che, nella scena dell'Epifania, come pure altrove, passa inosservato. Io lo immagino raccolto in contemplazione, mentre protegge con amore il Figlio di Dio che, fatto uomo, è stato affidato alle sue cure paterne. Con la meravigliosa delicatezza di chi non vive per sé, il santo Patriarca si prodiga in un servizio silenzioso ed efficace.
Abbiamo parlato oggi di vita d'orazione e di zelo apostolico. Quale maestro migliore di san Giuseppe? Se volete un consiglio, vi dirò quello che ripeto instancabilmente da molti anni: Ite ad Ioseph 126, ricorrete a san Giuseppe; egli vi mostrerà vie pratiche e modi ad un tempo umani e divini di avvicinarvi a Gesù. E ben presto oserete fare come lui: Portare in braccio, baciare, vestire, custodire 127 il Dio Bambino che ci è nato. Assieme all'omaggio della loro venerazione, i Magi offrirono a Gesù oro, incenso e mirra; Giuseppe gli diede intero il suo cuore giovane e innamorato.

 «    Nella bottega di Giuseppe    » 

Omelia pronunciata il 19 marzo 1963

39 La Chiesa intera riconosce in san Giuseppe il suo protettore e patrono. Nel corso dei secoli si è parlato di lui, sottolineando i vari aspetti della sua vita, che lo mostrano costantemente fedele alla missione ricevuta da Dio. È per questo che, da molti anni, mi piace invocarlo con un titolo che mi sta a cuore: Padre e signore nostro.
San Giuseppe è realmente un padre e signore che protegge e accompagna nel cammino terreno coloro che lo venerano, come protesse e accompagnò Gesù che cresceva e diveniva adulto. Dall'intimità con lui si scopre inoltre che il santo Patriarca è maestro di vita interiore: ci insegna infatti a conoscere Gesù, a convivere con Lui, a sentirci parte della famiglia di Dio. San Giuseppe ci insegna tutto ciò apparendoci così come fu: un uomo comune, un padre di famiglia, un lavoratore che si guadagna la vita con lo sforzo delle sue mani. E anche questo fatto ha per noi un significato che è motivo di riflessione e di gioia.
Celebrando oggi la sua festa, desidero rievocare la sua figura rifacendomi a quello che di lui ci dice il Vangelo, in modo da scoprire meglio quello che Dio, per mezzo della vita semplice dello sposo di Maria, ci vuoi far conoscere.

San Giuseppe nel Vangelo

40 Sia Matteo che Luca ci parlano di san Giuseppe come di un uomo che discende da una stirpe illustre: quella di Davide e Salomone, i re di Israele. I particolari storici di questa ascendenza sono piuttosto incerti: delle due genealogie riportate dagli evangelisti, non sappiamo quale corrisponda a Maria, Madre di Gesù secondo la carne, e quale a Giuseppe, padre di Gesù secondo la legge degli ebrei. Non sappiamo nemmeno se la città natale di Giuseppe sia Betlemme, dove si recò per il censimento, o Nazaret, dove viveva e lavorava.
Sappiamo invece che non era ricco: era un lavoratore come milioni di uomini in tutto il mondo; esercitava li mestiere faticoso e umile che Dio, prendendo la nostra carne e volendo vivere per trent'anni come uno qualunque tra di noi, aveva scelto per sé.
La Sacra Scrittura dice che Giuseppe era artigiano. Alcuni Padri aggiungono che fu falegname. San Giustino, parlando della vita di lavoro di Gesù, dice che fabbricava aratri e gioghi 128; forse per queste parole sant'Isidoro di Siviglia conclude che Giuseppe era fabbro. Comunque era un operaio che lavorava al servizio dei suoi concittadini, con un'abilità manuale derivante da lunghi anni di sforzi e di sudore.
Dai racconti evangelici risalta la grande personalità umana di Giuseppe: in nessuna circostanza si dimostra un debole o un pavido dinanzi alla vita; al contrario, sa affrontare i problemi, supera le situazioni difficili, accetta con responsabilità e iniziativa i compiti che gli vengono affidati.
Non sono d'accordo con il modo tradizionale di raffigurare san Giuseppe come un vecchio, anche se riconosco la buona intenzione di dare risalto alla verginità perpetua di Maria. Io lo immagino giovane, forte, forse con qualche anno più della Madonna, ma nella pienezza dell'età e delle forze fisiche.
Per praticare la virtù della castità non c'è bisogno di attendere la vecchiaia o la perdita del vigore. La purezza nasce dall'amore, e non sono un ostacolo per l'amore puro la forza e la gioia della giovinezza. Erano giovani il cuore e il corpo di Giuseppe quando contrasse matrimonio con Maria, quando conobbe il mistero della sua Maternità divina, quando le visse accanto rispettando quell'integrità che Dio affidava al mondo come uno dei segni della sua venuta tra gli uomini. Chi non è capace di capire tale amore vuol dire che sa ben poco del vero amore e che ignora totalmente il senso cristiano della castità.
Giuseppe, dunque, era un artigiano della Galilea, un uomo come tanti altri. E che cosa può attendersi dalla vita l'abitante di un villaggio sperduto come Nazaret? Lavoro e null'altro che lavoro; tutti i giorni, sempre con lo stesso sforzo. Poi, terminata la giornata, una casa povera e piccola, per ristorare le forze e ricominciare a lavorare il giorno dopo. Ma, in ebraico, il nome Giuseppe significa Dio aggiungerà. Dio aggiunge alla vita santa di coloro che compiono la sua volontà una dimensione insospettata: quella veramente importante, quella che dà valore a tutte le cose, quella divina. Alla vita umile e santa di Giuseppe, Dio aggiunse – mi si permetta di parlare così – la vita della Vergine Maria e quella di Gesù, nostro Signore. Dio non si fa battere in generosità. Giuseppe poteva far sue le parole di Maria, sua sposa: Quia fecit mihi magna qui potens est, grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente, quia respexit humilitatem, perché ha guardato la mia piccolezza 129. Giuseppe era infatti un uomo comune su cui Dio fece affidamento per operare cose grandi. Seppe vivere come voleva il Signore in tutti i singoli eventi che composero la sua vita. Per questo la Sacra Scrittura loda Giuseppe affermando che era giusto 130. E, nella lingua ebraica, giusto vuoi dire pio, servitore irreprensibile di Dio, esecutore della volontà divina 131; significa anche buono e caritatevole verso il prossimo 132. In una parola, il giusto è colui che ama Dio e dimostra questo amore osservando i comandamenti e orientando la vita intera al servizio degli uomini, propri fratelli.

La fede, la speranza, l'amore

41 La giustizia non consiste nella semplice sottomissione a una regola: la rettitudine deve nascere dal di dentro, deve essere profonda, vitale, perché il giusto vive della fede 133. Vivere della fede: queste parole, che saranno poi tanto spesso tema di meditazione per l'apostolo Paolo, le vediamo realizzate perfettamente in san Giuseppe. Egli non compie la volontà di Dio esteriormente, formalisticamente, ma in modo spontaneo e profondo. La legge che osservava ogni ebreo praticante non era per lui soltanto un codice o una fredda raccolta di precetti: era l'espressione della volontà del Dio vivo. Ed è per questo che Giuseppe seppe riconoscere la voce del Signore quando essa gli si manifestò inattesa e sorprendente.
La storia del santo Patriarca, infatti, è quella di una vita semplice, ma non certo facile. Dopo momenti angosciosi, egli sa che il Figlio di Maria è stato concepito per opera dello Spirito Santo. E quel Bambino, Figlio di Dio, discendente di Davide secondo la carne, nasce in una grotta. Gli angeli ne festeggiano la nascita e personalità di terre lontane vengono ad adorarlo; ma il re di Giudea vuole la sua morte, ed è necessario fuggire. Il Figlio di Dio è apparentemente un bimbo inerme che andrà a vivere in Egitto.

42 Narrandoci queste scene, Matteo mette costantemente in risalto la fedeltà di Giuseppe, che ubbidiva ai comandi di Dio senza tentennamenti, anche se a volte il senso di quei comandi gli doveva sembrare oscuro, oppure non riusciva a coglierne il nesso con il resto dei piani divini.
In molte occasioni i Padri della Chiesa e gli autori spirituali hanno fatto notare la fermezza della fede di Giuseppe. Riferendosi alle parole dell'angelo che gli ordina di fuggire da Erode e di rifugiarsi in Egitto 134, il Crisostomo commenta: Al sentire ciò, Giuseppe non si scandalizza né dice: « Mi sembra un enigma; tu stesso mi facevi sapere or non è molto che Egli avrebbe salvato il suo popolo, ed ecco che ora non è capace di salvare se stesso, anzi, dobbiamo fuggire, intraprendere un viaggio e subire un lungo esilio: ciò e contrario alla tua promessa ». Giuseppe non ragiona così, perché è uomo fedele. Non domanda nemmeno il tempo del ritorno, nonostante fosse rimasto indeterminato, giacché l'angelo gli aveva detto: « Resta là – in Egitto – finché te lo dirò ». Non per questo si sente in difficoltà, ma obbedisce, crede e sopporta con gioia tutte le prove 135.
La fede di Giuseppe non vacilla, la sua obbedienza è sempre precisa e immediata. Per comprendere meglio la lezione del santo Patriarca, è opportuno considerare che la sua fede è attiva e che la sua docilità non ha nulla dell'obbedienza di chi si lascia trascinare dagli eventi. La fede cristiana, infatti, è quanto di più opposto ci sia al conformismo, all'inerzia interiore.
Giuseppe si abbandonò senza riserve all'azione di Dio, ma non rifiutò mai di riflettere sui fatti, e in tal modo ottenne dal Signore quel grado di intelligenza delle opere di Dio che costituisce la vera sapienza. E così apprese a poco a poco che i disegni soprannaturali hanno una coerenza divina, sovente in contraddizione con i piani umani.
Nelle diverse circostanze della sua vita, il Patriarca non rinuncia a pensare, né a far uso della sua responsabilità. Anzi, colloca al servizio della fede tutta la sua esperienza umana. Di ritorno dall'Egitto, avendo saputo che era re della Giudea Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi 136. Ha imparato a muoversi nell'ambito del piano divino e, a conferma che il suo presentimento corrisponde effettivamente alla volontà di Dio, riceve l'indicazione di riparare in Galilea.
Tale fu la fede di Giuseppe: piena, fiduciosa, integra; una fede che si manifesta con la dedizione efficace alla volontà di Dio, con l'obbedienza intelligente. E, assieme alla fede, ecco la carità, l'amore. La sua fede si fonde con l'amore: l'amore per Dio che compiva le promesse fatte ad Abramo, a Giacobbe, a Mosé; l'affetto coniugale per Maria; l'affetto paterno per Gesù. Fede e amore si fondono nella speranza della grande missione che Dio, servendosi proprio di lui – un falegname della Galilea – cominciava a realizzare nel mondo: la redenzione degli uomini.

43 Fede, amore, speranza: sono i cardini della vita di Giuseppe, come lo sono di ogni vita cristiana. La dedizione di Giuseppe risulta da questo intrecciarsi di amore fedele, di fede amorosa, di speranza fiduciosa. La sua festa è dunque un'ottima occasione per rinnovare il nostro impegno di fedeltà alla vocazione di cristiani, che il Signore ha concesso a ognuno di noi.
Quando si desidera sinceramente vivere di fede, di amore e di speranza, rinnovare il proprio impegno non è come riprendere una cosa lasciata in disuso. Quando c'è fede, amore e speranza, rinnovarsi significa – nonostante gli errori personali, le cadute, le debolezze – voler restare nelle mani di Dio, confermare un cammino di fedeltà. Rinnovare l'impegno – ripeto – è rinnovare la fedeltà a quanto il Signore vuole da noi: che amiamo con i fatti.
L'amore ha necessariamente le sue manifestazioni caratteristiche. A volte si parla dell'amore come se fosse un impulso verso la propria soddisfazione o una semplice risorsa per completare egoisticamente la propria personalità. Ma non è così: l'amore vero è un uscire da se stessi, è un darsi. L'amore porta con sé la gioia, ma è una gioia con le radici a forma di croce. Finché siamo sulla terra, finché non è raggiunta la pienezza della vita futura, non vi può essere amore vero senza esperienza di sacrificio, di dolore. Un dolore che si gusta, che è amabile, che è fonte di intimo gaudio; ciò nondimeno è un dolore reale, perché si tratta di vincere il proprio egoismo e di prendere l'Amore come regola di tutte e singole le nostre azioni.

44 Le opere dell'Amore sono sempre grandi, benché si tratti di cose in apparenza piccole. Dio si è avvicinato a noi, creature povere, e ci ha detto che ci ama: Le mie delizie sono tra i figli degli uomini 137. Il Signore ci fa conoscere che tutto ha importanza: sia le azioni che ai nostri occhi appaiono grandi, sia quelle che invece giudichiamo di poco valore. Nulla va perduto. Nessun uomo è disprezzato da Dio. Ognuno è chiamato a partecipare al regno dei Cieli per mezzo del compimento della propria vocazione: nel suo focolare, nella sua professione o mestiere, negli obblighi corrispondenti al proprio stato, nel compimento dei doveri civili, nell'esercizio dei propri diritti.
È quanto ci insegna la vita di san Giuseppe: semplice, normale, comune, fatta di anni di lavoro uguale, di giorni che si susseguono con apparente monotonia. Ho pensato tutto ciò molte volte meditando la figura di Giuseppe, ed è questa una delle ragioni della mia speciale devozione per lui.
Quando Sua Santità Giovanni XXIII annunziò, nel discorso di chiusura della prima sessione del Concilio Vaticano II, che nel canone della Messa sarebbe stato introdotto il nome di Giuseppe, un'alta personalità ecclesiastica si affrettò a telefonarmi per dirmi: « Rallegramenti! A quell'annunzio ho pensato subito a lei, alla gioia che ne avrebbe avuto ». Ed era così, perché nell'assemblea conciliare, che rappresenta la Chiesa intera riunita nello Spirito Santo, si proclamava l'immenso valore soprannaturale della vita di Giuseppe, il valore di una vita semplice di lavoro vissuta alla presenza di Dio in perfetto compimento della divina volontà.

La santificazione del lavoro

45 Per descrivere lo spirito dell'Opus Dei, l'istituzione alla quale ho dedicato la mia vita, ho detto che esso poggia e fa perno sul lavoro ordinario, sul lavoro professionale esercitato in mezzo al mondo. La vocazione divina ci affida una missione, ci invita a partecipare al compimento della Chiesa, a essere testimoni di Cristo dinanzi agli uomini, nostri uguali, e a portare a Dio tutte le cose.
La vocazione accende in noi una luce che ci fa riconoscere il senso della nostra esistenza. La vocazione ci convince, con la luminosità della fede, del perché della nostra realtà terrena. Tutta la nostra vita, quella presente, quella passata e quella che verrà, acquista un nuovo rilievo, una profondità mai prima immaginata. Tutti gli eventi e tutte le circostanze occupano ora il loro vero posto: comprendiamo dove il Signore vuole condurci e ci sentiamo come trascinati da questa missione che Egli ci affida.
Dio ci tira fuori dalle tenebre della nostra ignoranza, dal nostro brancolare in mezzo ai mille casi della storia, e ci chiama con voce potente, come un giorno chiamò Pietro e Andrea: Seguitemi, vi foro pescatori di uomini 138, qualunque sia il posto che occupiamo nel mondo.
Chi vive della fede incontrerà difficoltà e lotta, dolore anche amarezza, mai però lo scoraggiamento o l'angoscia, perché sa che la sua vita è utile, sa il perché della sua esistenza terrena: Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita 139.
Per meritare questa luce di Dio è necessario amare, avere l'umiltà di riconoscere il nostro bisogno d'essere salvati e dire con Pietro: Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio 140. Se ci decidiamo ad agire così, se lasciamo entrare nel nostro cuore la chiamata di Dio, potremo sinceramente dire che non camminiamo nelle tenebre, perché al di sopra delle nostre miserie e dei nostri personali difetti brilla la luce di Dio, come il sole brilla al di sopra della tempesta.

46 La fede e la vocazione cristiana impregnano non una parte, ma tutta la nostra esistenza. I rapporti con Dio sono necessariamente rapporti di dedizione e assumono un senso di totalità. L'atteggiamento dell'uomo di fede è di guardare alla vita, in tutte le sue dimensioni, con una prospettiva nuova: quella che ci è data da Dio.
Voi che oggi celebrate con me la festa di san Giuseppe, siete persone dedite al lavoro in varie attività professionali, formate vari focolari e appartenete a diverse nazioni, razze e lingue. Vi siete educati nelle aule universitarie o nelle fabbriche, avete esercitato per anni la vostra professione, avete intessuto rapporti di lavoro e di amicizia con i vostri compagni, avete partecipato alla soluzione dei problemi collettivi delle vostre imprese e della vostra società.
Ebbene, vi ricordo ancora una volta che tutto ciò non è estraneo ai piani divini. La vostra vocazione umana è parte importante della vostra vocazione divina. Ecco il motivo per cui dovete santificarvi – collaborando al tempo stesso alla santificazione degli altri – santificando precisamente il vostro lavoro e il vostro ambiente, e cioè la professione o il mestiere che riempie i vostri giorni, che dà una fisionomia peculiare alla vostra personalità umana, che è il vostro modo di essere presenti nel mondo; e, assieme al lavoro, il focolare, la vostra famiglia e, infine, la nazione ove siete nati e che amate.

47 Il lavoro accompagna inevitabilmente la vita dell'uomo sulla terra. Assieme ad esso compaiono lo sforzo, la fatica, la stanchezza, come manifestazione del dolore e della lotta che fanno parte della nostra esistenza attuale e che sono segni della realtà del peccato e del bisogno di redenzione. Ma il lavoro non è in se stesso una pena, né una maledizione, né un castigo: coloro che parlano così non hanno letto bene la Sacra Scrittura. È tempo che i cristiani dicano ben forte che il lavoro è un dono di Dio e che non ha alcun senso dividere gli uomini in categorie diverse secondo il tipo di lavoro; è testimonianza della dignità dell'uomo, del suo dominio sulla creazione; promuove lo sviluppo della sua personalità, è vincolo di unione con gli altri uomini, fonte di risorse per sostenere la propria famiglia, mezzo per contribuire al miglioramento della società in cui si vive e al progresso di tutta l'umanità.
Per il cristiano, queste prospettive si dilatano. Il lavoro appare infatti come partecipazione all'opera creatrice di Dio, il quale, avendo creato l'uomo, gli diede la sua benedizione: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra 141. E inoltre il lavoro, essendo stato assunto da Cristo, diventa attività redenta e redentrice: non solo è l'ambito nel quale l'uomo vive, ma mezzo e strada di santità, realtà santificabile e santificatrice.

48 Non bisogna pertanto dimenticare che tutta la dignità del lavoro è fondata sull'Amore. Il grande privilegio dell'uomo è di poter amare, trascendendo così l'effimero e il transitorio. L'uomo può amare le altre creature, può dire un tu e un io pieni di significato. E può amare Dio, che ci apre le porte del Cielo, ci costituisce membri della sua famiglia, ci autorizza a dar del tu anche a Lui, a parlargli faccia a faccia.
L'uomo, pertanto, non deve limitarsi a fare delle cose, a costruire oggetti. Il lavoro nasce dall'amore, manifesta l'amore, è ordinato all'amore. Riconosciamo Dio non solo nello spettacolo della natura, ma anche nell'esperienza del nostro lavoro, del nostro sforzo. Sapendoci posti da Dio sulla terra, amati da Lui ed eredi delle sue promesse, il lavoro diviene preghiera, rendimento di grazie. E giusto che ci si dica: Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per gloria di Dio 142.

49 Il lavoro è anche apostolato, occasione di servizio agli uomini per far loro conoscere Cristo e condurli al Padre, come conseguenza della Carità che lo Spirito Santo infonde nelle anime. Tra le indicazioni di san Paolo agli Efesini perché si manifesti in loro il cambiamento prodotto dalla conversione, dalla loro chiamata al cristianesimo, vi è questa: Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità 143.
Gli uomini hanno bisogno del pane della terra, che sostiene la loro vita, e anche del pane del Cielo che illumina e dà calore ai loro cuori. Con il vostro lavoro e con le iniziative che si promuovono a partire da esso, con le amicizie e le relazioni che suscita, voi potete e dovete mettere in pratica quel precetto apostolico.
Quando si lavora con questo spirito, la nostra vita, pur nei limiti propri della condizione terrena, sarà un anticipo della gloria del Cielo, di quella comunità con Dio e con i santi nella quale regneranno soltanto l'amore, il dono di sé, la fedeltà, l'amicizia, la gioia. Nella vostra attività professionale ordinaria e quotidiana, troverete il materiale – reale, solido, di buona qualità – per realizzare tutta la vita cristiana, per rendere attuale la grazia che ci viene da Cristo.
In questo vostro lavoro professionale, consapevolmente svolto di fronte a Dio, verranno esercitate la fede, la speranza e la carità. Le diverse situazioni, rapporti e problemi che il vostro lavoro comporta, alimenteranno la vostra preghiera. L'impegno di portare a compimento il vostro dovere ordinario sarà l'occasione per sentire la Croce, che è essenziale nella vita di un cristiano. L'esperienza della vostra debolezza e gli insuccessi – immancabili in ogni sforzo umano – vi daranno più realismo, più umiltà, più comprensione per gli altri. I successi e le gioie saranno un invito alla gratitudine e vi faranno pensare che non vivete per voi stessi, ma al servizio degli altri e di Dio.

Per servire, servire

50 Per raggiungere questo stile di vita e santificare la professione, è necessario anzitutto lavorare bene, con serietà umana e soprannaturale. A questo punto voglio ricordarvi, per contrasto, un vecchio racconto tratto dai vangeli apocrifi: Il padre di Gesù, che era falegname, fabbricava aratri e gioghi. Una volta gli fu incaricato un letto per una certa persona di buona posizione. Ma, intrapreso il lavoro, accadde che una delle assi riuscisse più corta dell'altra, e Giuseppe non sapeva che fare. Allora Gesù bambino disse a suo padre: colloca in terra le due assi e livellale a una delle estremità. E così fece Giuseppe. Gesù si mise dall'altra parte, prese l'asse più corta e la tirò, finché raggiunse la lunghezza dell'altra. Giuseppe, suo padre, rimase ammirato del prodigio e copri il bambino di baci e di abbracci, dicendo: « Me felice, perché Dio mi ha dato questo bambino » 144. No, Giuseppe non ringraziava Dio per queste cose; il suo lavoro non poteva essere di quel tipo. San Giuseppe non era l'uomo dalle soluzioni facili e miracolistiche; era uomo perseverante, tenace e – all'occorrenza – ingegnoso.
Il cristiano sa che Dio fa miracoli: li ha compiuti secoli fa, ha continuato a compierli e li compie tuttora, perché la mano del Signore non è troppo corta. 145. Ma i miracoli sono una manifestazione della potenza salvifica di Dio, e non un espediente per risolvere le conseguenze della nostra inettitudine o per agevolare la nostra comodità. Il miracolo che il Signore vi chiede è la perseveranza nella vostra vocazione cristiana e divina e la santificazione del lavoro d'ogni giorno: il miracolo di trasformare la prosa quotidiana in versi epici, in virtù dell'amore con cui svolgete la vostra occupazione abituale. È là che Dio vi attende, chiamandovi a essere anime dotate di senso di responsabilità, ricche di zelo apostolico e professionalmente competenti.
Pertanto, volendo dare un motto al vostro lavoro, potrei indicarvi questo: Per servire, servire. In primo luogo, infatti, per realizzare le cose bisogna saperle condurre a termine. Non credo alla rettitudine di intenzione di chi non si sforza di ottenere la competenza necessaria per svolgere debitamente i compiti che gli sono affidati. Non basta voler fare il bene; è necessario saperlo fare. E, se il nostro volere è sincero, deve tradursi nell'impegno di impiegare i mezzi adeguati per compiere le cose fino in fondo, con perfezione umana.

51 Ma anche questo servizio umano, questa idoneità potremmo chiamare tecnica, questo saper fare il proprio mestiere, deve essere dotato di una caratteristica che fu fondamentale nel lavoro di Giuseppe e che tale dovrebbe essere anche per ogni cristiano: lo spirito di servizio, il desiderio di lavorare per contribuire al bene comune. Il lavoro di Giuseppe non tendeva all'affermazione di sé, anche se effettivamente la dedizione a una vita di lavoro gli aveva dato una personalità matura e spiccata. Il Patriarca lavorava con la consapevolezza di compiere la volontà di Dio, pensando al bene dei suoi – Gesù e Maria – e avendo presente il bene di tutti gli abitanti della piccola Nazaret.
A Nazaret Giuseppe doveva essere uno dei pochi artigiani del villaggio, o forse l'unico. Probabilmente era falegname. Ma, come accade nei piccoli paesi, doveva essere capace di fare anche altre cose: rimettere in funzione il mulino, o riparare prima dell'inverno le crepe di un tetto. Giuseppe, indubbiamente, con un lavoro ben fatto, risolveva le difficoltà di molta gente. La sua attività professionale era orientata al servizio degli altri, a rendere più gradevole la vita delle famiglie del villaggio; ed era certamente accompagnata da un sorriso, da una parola opportuna, da uno di quei commenti fatti di sfuggita, ma che servono a ridare la fede e la gioia a chi sta per perderle.

52 In certe occasioni, lavorando per persone più povere di lui, immaginiamo Giuseppe che accetta un compenso simbolico, quanto basta a lasciare l'altra persona con la soddisfazione di aver pagato. Ma normalmente Giuseppe si sarà fatto pagare il giusto prezzo, né più né meno. Avrà saputo esigere, secondo giustizia, quanto gli era dovuto, poiché la fedeltà a Dio non richiede la rinuncia a diritti che in realtà sono doveri: e Giuseppe era tenuto a esigere il giusto, perché con il compenso del suo lavoro doveva sostenere la Famiglia che Dio gli aveva affidato. L'esigere un diritto non deve essere però frutto di egoismo individualista. Non si ama la giustizia se non si desidera di vederla compiuta in favore degli altri. Nemmeno è lecito chiudersi in una religiosità comoda, che dimentica i bisogni del prossimo. Chi desidera essere giusto agli occhi di Dio, si sforza di promuovere concretamente la giustizia tra gli uomini. E non soltanto per il buon motivo di non occasionare ingiuria al nome di Dio, ma anche perché essere cristiani significa fare proprie tutte le nobili aspirazioni umane. Parafrasando una nota frase dell'apostolo Giovanni 146, si può dire che chi afferma d'essere giusto con Dio, ma non lo è con gli uomini, è menzognero, e la verità non dimora in lui.
Io, come tutti i cristiani che hanno vissuto quel momento, accolsi con emozione e con gioa, anni fa, l'istituzione della festività liturgica di san Giuseppe Lavoratore. Questa festa, che è la canonizzazione del valore divino del lavoro, dimostra che la Chiesa, nella sua vita sociale e pubblica, si fa eco di quelle verità centrali del Vangelo che Dio vuole siano meditate in modo speciale in questa nostra epoca.

53 Di questo tema abbiamo parlato molto in altre occasioni, ma permettetemi di insistere ancora una volta sulla naturalezza e la semplicità della vita di Giuseppe, che non si teneva distante dai suoi vicini e non innalzava barriere superflue.
Pertanto, anche se forse conviene farlo in taluni momenti o situazioni, generalmente non mi piace parlare di operai cattolici, di medici cattolici, di ingegneri cattolici e così via, come per indicare una specie all'interno di un determinato genere, come se i cattolici formassero un gruppetto separato dagli altri uomini, perché così si dà la sensazione che esista un fossato tra i cristiani e il resto dell'umanità. Rispetto l'opinione contraria, ma penso che sia molto più appropriato parlare di operai che sono cattolici o di cattolici che sono operai, di ingegneri che sono cattolici o di cattolici che sono ingegneri. Perché l'uomo che ha fede ed esercita una professione
– intellettuale, tecnica o manuale – è e si sente unito agli altri, uguale agli altri, con gli stessi diritti e gli stessi obblighi, con lo stesso desiderio di migliorare e lo stesso slancio per affrontare e risolvere i problemi comuni. Il cattolico, accettando tutto ciò, saprà fare della sua vita quotidiana una testimonianza di fede, di speranza, di carità; testimonianza semplice e spontanea che, senza manifestazioni vistose, ma attraverso la coerenza di vita, dà rilievo alla costante presenza della Chiesa nel mondo: giacché tutti i cattolici sono essi stessi Chiesa, membri a pieno diritto dell'unico Popolo di Dio.

Il rapporto tra Gesù e Giuseppe

54 Già da tempo amo recitare una commovente invocazione a san Giuseppe che la Chiesa stessa ci propone tra le preghiere di preparazione alla Messa: O beato Giuseppe, uomo felice, a cui fu concesso che quel Dio, che molti re vollero vedere e non videro, sentire e non sentirono, non solo fosse da te visto e sentito, ma anche portato in braccio, baciato, vestito e custodito: prega per noi. Questa preghiera ci servirà a entrare nell'ultimo tema che voglio toccare: il rapporto intimo e affettuoso tra Giuseppe e Gesù.
La vita di Gesù fu per Giuseppe una continua scoperta della propria vocazione. Abbiamo già ricordato quei primi anni pieni di eventi in apparente contrasto: glorificazione e fuga, dignità dei Magi e povertà del presepio, canto di angeli e silenzio degli uomini. Quando giunge il momento di presentare il Bambino al tempio, Giuseppe, che porta la povera offerta di un paio di tortore, ascolta Simeone e Anna che proclamano che Gesù è il Messia. Suo padre e sua madre – ci narra san Luca – si stupivano delle cose che si dicevano di lui 147. Più tardi, quando il Bambino rimane nel tempio senza che Maria e Giuseppe se ne avvedano, ritrovandolo dopo tre giorni, essi – è sempre Luca che narra – restarono meravigliati 148.
Giuseppe resta sorpreso, si meraviglia. Dio gli ha rivelato i suoi piani ed egli cerca di capirli. Come ogni anima che vuole seguire Gesù da vicino, egli scopre subito che non è possibile camminare con passo stanco, che non si possono far le cose per abitudine. Dio, infatti, non accetta che ci si stabilizzi a un certo livello, che ci si adagi sulle posizioni raggiunte. Dio esige costantemente di più, e le sue vie non sono le nostre vie terrene. San Giuseppe, meglio di chiunque altro prima o dopo di lui, ha imparato da Gesù a essere pronto a riconoscere le meraviglie di Dio, a tenere aperti l'anima e il cuore.

55 Ma se Giuseppe ha appreso da Gesù a vivere in modo divino, oserei dire che, nell'umano, egli ha insegnato cose al Figlio di Dio. C'è qualcosa che non mi soddisfa nel titolo di padre putativo con cui sovente si designa Giuseppe, perché induce a pensare che i rapporti tra Giuseppe e Gesù fossero freddi ed esteriori. È vero che la nostra fede ci insegna che non era padre secondo la carne, ma non è questa l'unica paternità.
A Giuseppe – leggiamo in sant'Agostino – non solo si deve il nome di padre, ma anzi, gli si deve più che a nessun altro. E come era padre? Tanto più profondamente fu padre quanto più casta fu la sua paternità. Alcuni pensavano che fosse padre del Signore nostro Gesù Cristo allo stesso modo che sono padri coloro che generano secondo la carne e che non ricevono i loro figli soltanto come frutto di un legame spirituale. Per questo Luca dice: « Era figlio, come si credeva, di Giuseppe ». Perché dice "come si credeva"? Perché il pensiero e il giudizio umani si riferiscono a quel che suole accadere tra gli uomini. E il Signore non nacque dal seme di Giuseppe. Tuttavia, dalla Vergine Maria nacque un figlio alla carità e alla pietà di Giuseppe: ed era il Figlio di Dio 149.
Giuseppe amò Gesù come un padre ama suo figlio e gli si dedicò dandogli il meglio che poteva. Giuseppe, prendendo cura di quel Bambino che gli era stato affidato, fece di Gesù un artigiano: gli trasmise il suo mestiere. Gli abitanti di Nazaret parleranno pertanto di Gesù chiamandolo a volte l'artigiano, altre volte il figlio dell'artigiano 150. Gesù lavorò nella bottega di Giuseppe e accanto a Giuseppe. Quali saranno state le doti di Giuseppe, come avrà operato in lui la grazia, da renderlo capace di portare a termine la maturazione umana del Figlio di Dio? Perché Gesù dovette rassomigliargli in molti aspetti: nel modo di lavorare, nei lineamenti del suo carattere, nell'accento. Il realismo di Gesù, il suo spirito di osservazione, il modo di sedere a mensa e spezzare il pane, il gusto per il discorso concreto, prendendo spunto dalle cose della vita ordinaria: tutto ciò è il riflesso dell'infanzia e della giovinezza di Gesù, e quindi pure il riflesso della dimestichezza con Giuseppe.
Non è possibile negare la grandezza del mistero: questo Gesù, che è uomo, che parla con l'inflessione di una determinata regione di Israele, che assomiglia a un artigiano di nome Giuseppe, costui è il Figlio di Dio. E chi può insegnare qualcosa a chi è Dio? Ma Gesù è realmente uomo e vive normalmente: prima come bambino, poi come ragazzo che comincia a dare una mano nella bottega di Giuseppe, finalmente come uomo maturo, nella pienezza dell'età. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini 151.

56 Giuseppe è stato, nell'ordine naturale, maestro di Gesù: ha avuto con Lui rapporti quotidiani delicati e affettuosi, e se n'è preso cura con lieta abnegazione. Tutto ciò non è forse un buon motivo per considerare questo uomo giusto, questo santo Patriarca, in cui culmina la fede dell'Antica Alleanza, come Maestro di vita interiore? La vita interiore non è altro che il rapporto assiduo e intimo con Cristo, allo scopo di identificarci con Lui. E Giuseppe saprà dirci molte cose di Gesù. Pertanto, non tralasciate mai di frequentarlo: Andate da Giuseppe, raccomanda la tradizione cristiana con una frase dell'Antico Testamento 152.
Maestro di vita interiore, lavoratore impegnato nel dovere quotidiano, servitore fedele di Dio in continuo rapporto con Gesù: questo è Giuseppe. Andate da Giuseppe. Da Giuseppe il cristiano impara che cosa significa essere di Dio ed essere pienamente inserito tra gli uomini, santificando il mondo. Frequentate Giuseppe e incontrerete Gesù. Frequentate Giuseppe e incontrerete Maria, che riempi sempre di pace la bottega di Nazaret.

 «    La conversione dei figli di Dio    » 

Omelia pronunciata il 2 marzo 1952, prima domenica di Quaresima

57 Siamo entrati nel tempo di Quaresima, tempo di penitenza, di purificazione, di conversione. Non è un compito facile. Il cristianesimo non è un cammino comodo: non basta "stare" nella Chiesa e far passare gli anni. Nella nostra vita, vita di cristiani, la prima conversione – quel momento irripetibile, indimenticabile, in cui si vede con tanta chiarezza tutto ciò che il Signore ci chiede – è importante; però ancora più importanti e difficili sono le conversioni successive. Per agevolare l'opera della grazia divina che si manifesta in esse, occorre conservare un animo giovane, invocare il Signore, ascoltarlo, scoprire ciò che in noi non va, chiedere perdono.
Invocabit me et ego exaudiam eum, se mi invocherete vi ascolterò, dice il Signore 153. Considerate quanto è meravigliosa la sollecitudine di Dio verso di noi; è sempre disposto ad ascoltarci, sempre attento alla parola dell'uomo. In ogni tempo – ma ora in modo speciale, perché il nostro cuore è ben disposto, deciso a purificarsi – Egli ci ascolta e non sarà sordo alle richieste di un cuore contrito e umiliato 154.
Il Signore ci ascolta per intervenire, per entrare nella nostra vita, liberarci dal male, colmarci di bene: Eripiam eum et glorificabo eum 155, ci libererà e ci glorificherà. Ecco la speranza della gloria: ritroviamo qui, come già in altre occasioni, l'inizio di quell'intimo movimento che è la vita spirituale. La speranza di questa glorificazione accresce la nostra fede e stimola la nostra carità. In tal modo le tre virtù teologali, virtù divine che ci fanno simili a Dio nostro Padre, diventano operanti.
Quale miglior modo di cominciare la Quaresima? Il rinnovamento della fede, della speranza e della carità è la fonte dello spirito di penitenza, che è desiderio di purificazione. La Quaresima non è solo un'occasione per intensificare le nostre pratiche esteriori di mortificazione: se pensassimo che è solo questo, ci sfuggirebbe il suo significato più profondo per la vita cristiana, perché quegli atti esterni – vi ripeto – sono frutto della fede, della speranza, dell'amore.

58 Qui habitat in adiutorio Altissimi, in protectione Dei coeli commorabitur 156, abitare sotto la protezione di Dio, vivere con Dio: in questo consiste la rischiosa sicurezza del cristiano. Bisogna persuadersi che Dio ci ascolta, che è accanto a noi: e il nostro cuore si riempirà di pace. Ma vivere con Dio è indubbiamente un rischio, perché il Signore non si accontenta di condividere: chiede tutto. E avvicinarsi un po' di più a Lui vuoi dire essere disposti a una nuova conversione, a una nuova rettificazione, ad ascoltare più attentamente le sue ispirazioni, i santi desideri che egli fa sbocciare nella nostra anima, e a metterli in pratica.
Certo, dai tempi della nostra prima decisione cosciente di vivere integramente la dottrina di Cristo, abbiamo fatto molti passi sulla strada della fedeltà alla sua Parola. Eppure, non è vero che restano ancora tante cose da fare? Non è vero che resta, soprattutto, tanta superbia? C'è indubbiamente bisogno di un nuovo cambiamento, di una lealtà più piena, di un'umiltà più profonda, affinché diminuisca il nostro egoismo e Cristo cresca in noi; infatti, illum oportet crescere, me autem minui 157, bisogna che Egli cresca e che io sminuisca.
Non si può rimanere inerti. È necessario avanzare verso la meta indicata da san Paolo: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me 158. L'ambizione è grande e nobile: è l'identificazione con Cristo, la santità. D'altronde non c'è altra strada se si desidera essere coerenti con la vita divina che Dio stesso, mediante il battesimo, ha fatto nascere nelle nostre anime. Andare avanti significa progredire in santità; si retrocede, invece, se si rinuncia allo sviluppo della vita cristiana. Il fuoco dell'amore di Dio ha bisogno di essere alimentato, di crescere ogni giorno, di gettare profonde radici nell'anima; e il fuoco si mantiene vivo a condizione di bruciare cose sempre nuove. Se non avvampa, rischia di estinguersi.
Ricordate le parole di Sant'Agostino: Se dici basta, sei perduto. Guarda sempre avanti, cammina sempre, avanza sempre. Non restare allo stesso posto, non retrocedere, non sbagliare strada 159.
La Quaresima ci pone davanti a degli interrogativi fondamentali: cresce la mia fedeltà a Cristo, il mio desiderio di santità? Cresce la generosità apostolica nella mia vita di ogni giorno, nel mio lavoro ordinario, fra i miei colleghi? Ognuno risponda silenziosamente, in cuor suo, a queste domande e scoprirà che è necessaria una nuova trasformazione perché Cristo viva in noi, perché la sua immagine si rifletta limpidamente nella nostra condotta.
Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua 160. È Cristo che ce lo ripete di nuovo, sottovoce, intimamente: la Croce ogni giorno. Non è solo – scrive san Gerolamo – in tempo di persecuzione e sotto la costrizione del martirio che dobbiamo rinnegare noi stessi quali eravamo in passato, ma in ogni attimo della nostra vita, nelle opere, nei pensieri e nelle parole; e dobbiamo far vedere che siamo degli esseri effettivamente rinati in Cristo 161.
Queste considerazioni non sono, in realtà, altro che l'eco di quelle dell'Apostolo: Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore 162.
La conversione è cosa di un istante; la santificazione è opera di tutta la vita. Il seme divino della carità, che Dio ha posto nelle nostre anime, aspira a crescere, a manifestarsi in opere e a produrre frutti che in ogni momento corrispondano ai desideri del Signore. È indispensabile quindi essere disposti a ricominciare, a ritrovare, nelle nuove situazioni della nostra vita, la luce e l'impulso della prima conversione. E questa è la ragione per cui dobbiamo prepararci con un approfondito esame di coscienza, chiedendo aiuto al Signore, per poterlo conoscere meglio e per conoscere meglio noi stessi. Se vogliamo convertirci di nuovo, questa è l'unica strada.

Il tempo propizio

59 Exhortamur ne in vacuum gratiam Dei recipiatis 163, esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio. La grazia divina potrà colmare la nostra anima in questa Quaresima, purché non chiudiamo le porte del cuore. Dobbiamo avere buone disposizioni, il desiderio di trasformarci veramente, di non giocare con la grazia di Dio.
Non mi piace parlare di timore, perché ciò che muove il cristiano è l'amore di Dio che è stato manifestato in Cristo e che ci insegna ad amare tutti gli uomini e l'intera creazione; dobbiamo però parlare di responsabilità, di serietà. Non vi fate illusioni – ci avverte l'Apostolo – , non ci si può prendere gioco di Dio 164.
Bisogna decidersi. Non si può vivere con quelle due candele che, secondo il detto popolare, ogni uomo tiene accese: una a san Michele e una al demonio. Bisogna spegnere la candela del demonio. Dobbiamo consumare la nostra vita facendola ardere tutta intera al servizio di Dio. Se il nostro desiderio di santità è sincero e docilmente ci mettiamo nelle mani di Dio, tutto andrà bene. Perché Dio è sempre disposto a darci la sua grazia e, specialmente in questo tempo, la grazia per una nuova conversione, per un miglioramento della nostra vita di cristiani.
Non possiamo considerare la Quaresima come un periodo qualsiasi, una ripetizione ciclica dell'anno liturgico. È un momento unico; è un aiuto divino che bisogna accogliere. Gesù passa accanto a noi e attende da noi – oggi, ora – un rinnovamento profondo.
Ecce nunc tempus accettabile, ecce nunc dies salutis 165: è il tempo propizio, l'occasione della salvezza. Si sente di nuovo il richiamo del Buon Pastore, la sua voce affettuosa: Ego vocavi te nomine tuo 166. Ci chiama per nome, a uno a uno, con l'appellativo famigliare con cui ci chiamano le persone che ci amano. La tenerezza di Gesù è inesprimibile.
Considerate con me quanto è meraviglioso l'amore di Dio: il Signore ci viene incontro, ci aspetta, attende lungo la strada in modo che non possiamo fare a meno di vederlo. E ci chiama personalmente, parlandoci delle nostre cose, che sono anche le sue: muove la nostra coscienza al pentimento, l'apre alla generosità e imprime nelle nostre anime il desiderio di essere fedeli e poterci chiamare suoi discepoli. Ci basta percepire queste intime parole della grazia, che suonano come un rimprovero sempre affettuoso, per renderci conto che Egli non ci ha dimenticati in tutto il tempo in cui noi, per nostra colpa, non ci siamo accorti di Lui. Cristo ci ama con l'amore infinito del suo Cuore divino.
Guardate come insiste: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso 167. Ti promette la gloria, il suo amore; te li dà al momento opportuno e ti chiama. E tu, che cosa dai al Signore? Come risponderai? Come risponderò io stesso all'amore di Gesù che passa accanto a noi?
Ecce nunc dies salutis, ecco, oggi è il giorno della salvezza. L'appello del Buon Pastore giunge sino a noi: Ego vocavi te nomine tuo, ho chiamato te, per nome. Bisogna rispondere – amore con amor si paga – dicendo: Ecce ego, quia vocasti me 168, mi hai chiamato, eccomi: sono deciso a non fare che il tempo di Quaresima passi come l'acqua sui sassi, senza lasciare traccia; mi lascerò penetrare, trasformare; mi convertirò, mi rivolgerò di nuovo al Signore, amandolo come Egli vuole essere amato.
Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente 169. Che cosa resta del tuo cuore – commenta Sant'Agostino – perché tu possa amare te stesso? Che cosa resta della tua anima e della tua mente? "Ex toto, Egli dice, con tutto". Totum exigit te, qui fecit te 170, Colui che ti fece, ti vuole tutto.

60 Dopo questa professione d'amore, bisogna comportarsi come veri innamorati di Dio. In omnibus exhibeamus nosmetipsos sicut Dei ministros 171, comportiamoci in ogni occasione come servitori del Signore. Se ti dai a Lui come Lui vuole, l'azione divina si manifesterà nella tua condotta professionale, nel lavoro, nell'impegno per rendere divine le cose umane, grandi o piccole che siano, perché mediante l'amore tutte acquistano una nuova dimensione.
Ma in questa Quaresima non possiamo dimenticare che voler essere servitori di Dio non è facile. Il testo di san Paolo propostoci dalla Messa di oggi ce ne ricorda le difficoltà: Come ministri di Dio – scrive l'Apostolo – con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio 172.
Nei momenti più diversi della vita, in tutte le situazioni, dobbiamo comportarci come servitori di Dio, sapendo che il Signore è con noi, e noi siamo suoi figli. Bisogna essere consapevoli della radice divina della nostra vita e agire in conseguenza.
Le parole dell'Apostolo devono riempirvi di gioia, perché sono la canonizzazione della vostra vocazione, quella di cristiani comuni, di coloro che vivono in mezzo al mondo condividendo con gli altri uomini, loro uguali, affanni, fatiche e gioie. Tutto questo è un cammino divino. Ciò che il Signore vi chiede è di agire, in ogni momento, come suoi figli e servitori.
Non dimentichiamo però che le circostanze ordinarie della vita sono cammino divino se veramente ci convertiamo e ci doniamo. Perché il linguaggio di san Paolo è duro: promette al cristiano una vita difficile, rischiosa, in perpetua tensione. Come è stato sfigurato il cristianesimo quando se ne è voluto fare una via comoda! Ma sfigura la verità anche chi pensasse che questa vita profonda e seria, che conosce vivamente tutti gli ostacoli dell'esistenza umana, sia una vita angosciata, fatta di oppressione e di paura.
Il cristiano è realista, di un realismo soprannaturale e umano che avverte tutte le sfaccettature della vita: il dolore e la gioia, la sofferenza propria e altrui, la sicurezza e il dubbio, la generosità e la tendenza dell'egoismo. Il cristiano conosce tutto e affronta tutto, ricco di maturità umana e della fortezza che riceve da Dio.

Le tentazioni di Gesù

61 La Quaresima commemora i quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto, in preparazione agli anni di predicazione che culminarono nella Croce e nella gloria della Pasqua. Quaranta giorni di preghiera e di penitenza. Al loro termine, avviene l'episodio che la liturgia di oggi offre alla nostra considerazione nel Vangelo della Messa: le tentazioni di Gesù 173. Un episodio pieno di mistero, che l'uomo cerca invano di capire – Dio che si sottomette alla tentazione, che lascia agire il Maligno – ma che può essere meditato chiedendo al Signore che ci faccia comprendere l'insegnamento che vi è contenuto.
Gesù tentato. La tradizione spiega questa scena considerando che Nostro Signore, per darci esempio in tutto, volle subire anche la tentazione. E infatti è così, perché Gesù fu perfetto uomo, uguale a noi in tutto, meno che nel peccato 174. Dopo i quaranta giorni di digiuno, mangiando solo – forse – erba e radici e bevendo un po' d'acqua, Gesù sente fame: fame vera, come quella di qualsiasi creatura. E quando il diavolo gli propone di cambiare in pane le pietre, Nostro Signore non solo rifiuta l'alimento che il suo corpo reclama, ma allontana da sé un incitamento più grave, quello di usare del suo potere divino per risolvere, se così si può dire, un problema personale.
Lo avrete notato voi stessi leggendo il Vangelo: Gesù non fa miracoli in favore di se stesso. Cambia l'acqua in vino per gli sposi di Cana 175 e moltiplica i pani e i pesci per sfamare la folla 176: ma Lui si guadagna il pane, per lunghi anni, col suo lavoro. E più tardi, pellegrino per le contrade di Israele, vive dell'aiuto di quelli che lo seguono 177.
Racconta san Giovanni che, dopo un lungo viaggio, giunto al pozzo di Sicar, Gesù manda i suoi discepoli al paese vicino a cercare provviste; ed Egli vedendo avvicinarsi una samaritana, chiede dell'acqua, poiché non ha di che procurarsene 178. Il suo corpo, affaticato dal lungo cammino, sperimenta la stanchezza e la sete. In altre occasioni, per riacquistare le forze, si abbandona al sonno 179: generosità del Signore che si umilia, che accetta in pieno la condizione umana, che non si serve del suo potere divino per sfuggire alle difficoltà o allo sforzo; che ci insegna a essere forti, ad amare il lavoro, ad apprezzare la nobiltà umana e divina di assaporare le conseguenze del dono di sé.
Nella seconda tentazione, quando il diavolo gli propone di gettarsi dall'alto del Tempio, Gesù rifiuta di nuovo di servirsi del suo potere divino. Egli non cerca la vanagloria, lo spettacolo, la commedia umana di chi pretende servirsi di Dio come scenario della propria eccellenza. Gesù vuole compiere la volontà del Padre senza affrettare i tempi né anticipare l'ora dei miracoli; vuole percorrere passo per passo il faticoso sentiero degli uomini, l'amabile cammino della Croce.
Qualcosa di simile accade nella terza tentazione: gli vengono offerti regni, potere, gloria. Il demonio pretende di estendere agli oggetti delle ambizioni umane l'adorazione che è dovuta solo a Dio: promette una vita facile a chi si prostra davanti a lui, davanti agli idoli. Nostro Signore riporta l'adorazione al suo unico e vero fine, a Dio, e riafferma la sua volontà di servizio: Allontànati da me, Satana, perché sta scritto: adorerai il Signore Dio tuo e a lui solo servirai 180.

62 Impariamo da Gesù. Nella sua vita terrena non ha voluto la gloria che gli spettava: pur avendo diritto a essere trattato come Dio, assunse le sembianze di servo, di schiavo 181. Il cristiano impara così che tutta la gloria è per Iddio, e che non può servirsi della grandezza sublime del Vangelo come strumento di ambizioni e di interessi umani.
Impariamo da Gesù. Il suo atteggiamento nell'opporsi a ogni gloria umana è in perfetta correlazione con la grandezza incomparabile della sua missione: quella del Figlio amatissimo di Dio che si incarna per la salvezza degli uomini. Una missione che l'amore del Padre ha circondato di una sollecitudine piena di tenerezza: Filius meus es tu, ego hodie genui te. Postula a me et dabo tibi gentes hereditatem tuam 182: tu sei mio figlio, oggi ti ho generato. Chiedi, e ti darò le genti in eredità.
Il cristiano che, seguendo Cristo, vive in atteggiamento di piena adorazione del Padre, riceve anche lui dal Signore parole di amorosa sollecitudine: Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome 183.

Gli angeli, nostri amici

63 Gesù ha detto di no al demonio, al principe delle tenebre. E subito si manifesta la luce: Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano 184. Gesù ha superato la prova; una vera prova, commenta sant'Ambrogio, perché Egli non agì come Dio, usandone il potere – altrimenti, a che ci sarebbe servito il suo esempio? – ma come uomo, servendosi dei mezzi che aveva in comune con noi 185.
Il demonio ha citato con perfidia l'Antico Testamento: Dio darà ordine ai suoi angeli di custodire il giusto in tutti i suoi passi 186. Ma Gesù, rifiutandosi di tentare il Padre, restituisce al passo biblico il suo vero significato e infatti, al momento opportuno, come conseguenza della sua fedeltà, vengono i messaggeri di Dio Padre a servirlo.
La tattica usata da Satana con Gesù nostro Signore merita d'essere considerata: si serve di passi dei libri sacri, ma ne sfigura il senso in modo blasfemo. Gesù non si lascia ingannare: il Verbo fatto carne conosce bene la Parola divina, scritta per la salvezza degli uomini e non per loro confusione e condanna. Ne possiamo dedurre che chi è unito a Gesù con l'amore non si lascerà mai ingannare da fraudolente interpretazioni della Scrittura, perché sa che è tipica opera del diavolo cercare di confondere la coscienza cristiana adoperando dolosamente le parole della Sapienza eterna per trasformare la luce in tenebre.
Soffermiamoci a contemplare l'intervento degli angeli nella vita di Gesù per capire meglio il loro compito – la missione angelica – nella vita umana. La tradizione cristiana descrive l'Angelo Custode come un grande amico che Dio ha messo accanto a ogni uomo per accompagnarlo nel suo cammino. E per questo ci invita a conoscerlo, a rivolgerci a lui.
La Chiesa, facendoci meditare questi passi della vita di Gesù, ci ricorda che nel tempo di Quaresima – tempo in cui ci riconosciamo peccatori, pieni di miserie, bisognosi di purificazione – c'è posto anche per la gioia. Perché la Quaresima è anche tempo di fortezza e di gaudio. Dobbiamo sentirci pieni di coraggio, perché la grazia del Signore non può mancare: Dio sarà sempre accanto a noi e manderà i suoi angeli perché siano i nostri compagni di viaggio, i nostri prudenti consiglieri lungo la via, i collaboratori in tutte le nostre imprese. In manibus suis portabunt te, ne forte offendas ad lapidem pedem tuum 187; gli angeli ti terranno per mano, affinché il tuo piede non inciampi nei sassi.
Dobbiamo imparare a trattare gli angeli. Rivolgiamoci a loro in questo momento. Parla al tuo Angelo Custode e digli che le acque soprannaturali della Quaresima non stanno passando invano sulla tua anima, ma penetrano in profondità, perché il tuo cuore è contrito. Chiedigli di presentare al Signore quella buona volontà che la grazia fa germogliare dalla tua miseria come un giglio che fiorisce nel letame. Sancti Angeli, custodes nostri, defendite nos in proelio, ut non pereamus in tremendo iudicio 188: santi Angeli Custodi, difendeteci nella battaglia, affinché non sia decretata la nostra morte nel tremendo giudizio.

Filiazione divina

64 Come si spiega questa preghiera fiduciosa, questa sicurezza di essere protetti nella battaglia? È una convinzione che si basa su una realtà che non mi stancherò mai di ammirare: la nostra filiazione divina. Il Signore, che in questa Quaresima ci chiede di convertirci, non è un dominatore tirannico né un giudice rigido e implacabile: è nostro Padre. Ci parla dei nostri peccati, dei nostri errori, della nostra mancanza di generosità; ma lo fa per liberarci da tutto questo e offrirci la sua amicizia e il suo amore. La consapevolezza della nostra filiazione divina riempie di gioia la nostra conversione: ci dice che stiamo tornando alla casa del Padre.
La filiazione divina è il fondamento dello spirito dell'Opus Dei. Tutti gli uomini sono figli di Dio. Ma un figlio si può comportare con suo padre in diverse maniere. Bisogna rendersi conto che il Signore, volendoci suoi figli, ci ha ammessi a vivere nella sua casa, in mezzo al mondo: ha voluto che fossimo della sua famiglia, che tutte le cose sue fossero nostre e le nostre sue, che lo trattassimo con tanta familiarità e fiducia da chiedergli, come fa il bambino, la luna!
Un figlio di Dio tratta il Signore come Padre. Non con ossequio servile né con riverenza formale, ma con sincerità e fiducia.
Dio non si scandalizza degli uomini, non si stanca delle nostre infedeltà. Il Padre del Cielo perdona qualsiasi offesa, quando il figlio torna a Lui, quando si pente e chiede perdono. Anzi, il Signore è a tal punto Padre da prevenire il nostro desiderio di perdono: è Lui a farsi avanti aprendoci le braccia con la sua grazia.
Non vi dico cose di mia invenzione. Basta ricordare la parabola che il Figlio di Dio ci ha narrato per farci capire l'amore del Padre che è nei Cieli: la parabola del figliol prodigo 189.
Quando era ancora lontano – dice la Scrittura –, suo padre lo vide e si commosse profondamente; gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo coprì di baci 190. Le parole del testo sacro sono proprio queste: lo coprì di baci. Si può parlare in maniera più umana? Si può descrivere con maggior evidenza l'amore paterno di Dio per gli uomini? Davanti a Dio che muove incontro a noi, non possiamo che esclamare, con san Paolo, Abba, Pater! 191, Padre, Padre mio! Pur essendo il creatore dell'universo, non esige titoli altisonanti né si cura del giusto riconoscimento del suo potere. Vuole che lo chiamiamo Padre e che, assaporando questa parola, l'anima ci si riempia di gioia.
La vita umana, in un certo modo, è un continuo ritorno alla casa del Padre. Ritorno mediante la contrizione, la conversione del cuore, che presuppone il desiderio di cambiare, la decisione ferma di migliorare la nostra vita, e si manifesta pertanto in opere di sacrificio e di dedizione. Ritorno alla casa del Padre per mezzo del sacramento del perdono, nel quale, confessando i nostri peccati, ci rivestiamo di Cristo e ridiventiamo suoi fratelli e membri della famiglia di Dio.
Dio ci aspetta, come il padre della parabola, con le braccia aperte, benché non lo meritiamo. Non gli importa l'entità del nostro debito. Come nel caso del figliol prodigo, dobbiamo solo aprire il cuore, sentire la nostalgia del focolare paterno, meravigliarci e rallegrarci di fronte al dono divino di poterci chiamare e di essere – nonostante tante mancanze di corrispondenza – veramente figli di Dio.

65 Che strana capacità ha l'uomo di dimenticare le cose più meravigliose, di abituarsi al mistero! Ricordiamo ancora una volta, in questa Quaresima, che il cristiano non può essere superficiale. Pienamente inserito nel suo lavoro ordinario, in mezzo agli altri uomini – a cui è uguale in tutto – attivo, impegnato, in tensione, il cristiano deve, nello stesso tempo, essere pienamente in Dio, perché ne è figlio.
La filiazione divina è una verità lieta, un mistero di consolazione. Riempie tutta la nostra vita spirituale perché ci insegna a trattare, conoscere, amare il nostro Padre del Cielo, e colma di speranza la nostra lotta interiore, dandoci la semplicità fiduciosa propria dei figli più piccoli. Più ancora: dal momento che siamo figli di Dio, questa realtà ci porta anche a contemplare con amore e ammirazione tutte le cose che sono uscite dalle mani di Dio, Padre e Creatore. In tal modo, è amando il mondo che diventiamo contemplativi in mezzo al mondo.
Nella Quaresima, la liturgia ha presenti le conseguenze del peccato di Adamo nella vita dell'uomo. Adamo non volle essere un buon figlio di Dio e si ribellò. Ma già risuona incessante l'eco del felix culpa – felice colpa – che la Chiesa intera, piena di gioia, canterà nella veglia di Pasqua 192.
Dio Padre, giunta la pienezza dei tempi, inviò al mondo il suo Figlio unigenito perché ristabilisse la pace; perché, redenti dal peccato, adoptionem filiorum reciperemus 193, fossimo costituiti figli di Dio, liberati dal giogo della schiavitù, resi capaci di partecipare all'intimità della Trinità divina. E così è stata data all'uomo nuovo, al nuovo innesto dei figli di Dio 194, la possibilità di riscattare la creazione intera dal disordine, restaurando tutte le cose in Cristo 195, in Colui che le ha riconciliate con Dio 196.
Tempo di penitenza, quindi. Ma la penitenza, lo abbiamo già visto, non è un compito negativo. La Quaresima va vissuta in quello spirito di filiazione che Cristo ci ha comunicato e che palpita nella nostra anima 197. Il Signore ci chiama ad avvicinarci a Lui con il desiderio di essere come Lui: Fatevi imitatori di Dio quali figli suoi carissimi 198, collaborando umilmente ma con fervore al divino proposito di unire ciò che è diviso, di salvare ciò che è perduto, di ordinare ciò che il peccato dell'uomo ha sconvolto, di ricondurre al suo fine ciò che se ne è allontanato, di ristabilire la divina concordia di tutto il creato.

66 La liturgia della Quaresima assume a volte toni drammatici, conseguenza della meditazione su ciò che significa per l'uomo allontanarsi da Dio. Ma non è questa l'ultima parola. L'ultima parola la dice Dio, ed è la parola del suo amore salvifico e misericordioso e, pertanto, la parola che dichiara la nostra filiazione divina. Per questo vi ripeto oggi con san Giovanni: Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! 199. Figli di Dio, fratelli del Verbo fatto carne, di colui di cui fu detto: In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini 200. Figli della luce, dunque, e fratelli della luce; portatori dell'unica fiamma capace di accendere i cuori degli uomini.
Mentre, fra poco, la santa Messa proseguirà, ciascuno di voi dovrà considerare che cosa gli chiede il Signore, quali propositi, quali decisioni vuole promuovere in Lui l'azione della grazia. Costatando dentro di voi queste esigenze soprannaturali e umane di donazione e di lotta, non dimenticate che Gesù Cristo è il nostro modello. E ricordate anche che Gesù, che è Dio, permise che fosse tentato, affinché ci riempissimo di coraggio e fossimo certi della vittoria. Egli infatti non perde battaglie, e noi, uniti a Lui, non saremo mai vinti, e potremo chiamarci ed essere veramente vincitori: buoni figli di Dio.
Cerchiamo di vivere contenti. Io sono contento. Non dovrei esserlo se guardo la mia vita e faccio quell'esame personale di coscienza che il tempo liturgico di Quaresima ci richiede. Eppure sono contento perché vedo che il Signore mi cerca ancora una volta, che il Signore continua a essere mio Padre. So che tutti noi, forti dello splendore e dell'aiuto della grazia, sapremo vedere con decisione che cosa bisogna bruciare, e la bruceremo; che cosa bisogna strappare, e la strapperemo; che cosa bisogna donare, e la doneremo.
Il lavoro non è facile, ma abbiamo una guida chiara, una realtà da cui non possiamo né dobbiamo prescindere: siamo amati da Dio. Lasceremo dunque che lo Spirito Santo agisca in noi e ci purifichi, e così abbracceremo il Figlio di Dio crocifisso e risusciteremo con Lui, dato che la gioia della Risurrezione ha le sue radici nella Croce.
Maria, Madre nostra, auxilium christianorum, refugium peccatorum, intercedi presso tuo Figlio affinché ci invii lo Spirito Santo. Egli risveglierà nel nostro cuore la decisione di camminare con passo fermo e sicuro, e ci farà sentire nell'intimo dell'anima quell'invito che riempì di pace il martirio di uno dei primi cristiani: Veni ad Patrem 201, vieni, torna dal Padre, Egli ti aspetta.

 «    Il rispetto cristiano per la persona e per la sua liberta    »